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Una separazione ineluttabile, probabilmente anche dolorosa. Politica e intellettuale. Le ultime analisi di Fausto Bertinotti, che in fondo fu l’inventore di Sel e padre spirituale di Vendola, sono definitive: la sinistra è morta. Di fatto, è un addio. Un de profundis che colpisce Nichi in pieno volto che peraltro appare sempre più proiettato nella dimensione del governo: e le prossime mosse sono molto interessanti per verificare che il ciclone-Fausto, su Sel, non sortirà effetti politici.
Già, Nichi non arretra dal suo progetto. Che non è quello della riproposizione di una sinistra antagonistica e antigovernativa ma il suo contrario, al punto di giocare la vita del suo partito, e il suo destino personale, proprio nella contesa per la guida del governo, mediante uno strumento certamente lontano dalla tradizione della sinistra classica come le primarie.
Vendola non cambia impostazione. Lo dimostrano la battaglia per il referendum anti-Porcellum per superare per sempre il proporzionale (a cui invece Bertinotti resta fedele), o il comizio di ieri sera a Bologna con Prodi (che «rappresenta un punto di riferimento per tutti coloro che intendono costruire un centrosinistra capace di guardare al futuro»): o, per converso, la presenza di Arturo Parisi alla manifestazione di Sel di sabato a Roma, o ancora lo dice la riservatissima riunione di oggi con economisti di area Pd o comunque di formazione liberal-democratica per verificare convegenze programmatiche, buone appunto per un programma di governo.
Bertinotti è fuori da tutto questo. C’è nella sua evoluzione (o involuzione) un’evidente analogia con la traiettoria di Pietro Ingrao, che d’altronde è una delle fonti essenziali del pensiero dell’ex presidente della camera: quando il Pci si sciolse diventando Pds, Ingrao scelse in in un primo momento di «lavorare nel gorgo» – nel nuovo partito – per poi prenderne via via le distanze, fino all’uscita e alla sostanziale adesione proprio a quella Rifondazione comunista all’epoca guidata da Bertinotti.
Così anche quest’ultimo. Ideologo della nuova Sel, dopo la rottura con Ferrero e la “vecchia” Rifondazione, Bertinotti si deve essere reso conto, col passare dei mesi e l’assunzione da parte del nuovo partito di una connotazione fortemente personalistica (che egli, in virtù di una formazione culturale di segno opposto, non può far propria), che la famosa “narrazione” vendoliana non riesce a riempire quel vuoto politico creatosi a sinistra, una volta accertato (da lui) il definitivo «spostamento al centro» (definizione ancora di Ingrao) del Partito democratico.
Ma negli ultimissimi mesi c’è stato qualcosa di più: la definitiva presa d’atto che occorra una palingenesi («una destrutturazione dei corpi inerti e la resurrezione di una nuova sinistra», così disse ad agosto a Cortina), a fondamento della quale, ovviamente, c’è la sconsolata constatazione che «la sinistra è morta».
Una sinistra – come afferma su Gli Altri oggi in edicola – che è «un desaparecido, un ente pressoché inutile», incapace di sviluppare una coerente critica dell’esistente.
Per Bertinotti, in sostanza, sono tutti “dentro” l’apparato concettuale che sottende questa fase del capitalismo, ivi comprese le sue strutture istituzionali: e in questo senso la sua critica all’evoluzione in senso maggioritario di Vendola non potrebbe essere più netta.
Il punto più critico, tuttavia, è che nel nuovo Bertinotti non si capisce come, e da dove, ricominciare: probabilmente, ancora una volta, dai movimenti, dalle lotte, dalle proteste, ma quali, precisamente, nemmeno lui lo sa. Ritiene che la grande crisi sia destinata a produrre molto, su questo terreno, anche se le incognite sulla politicità di questi moti sono moltissime. È un’analisi, probabilmente neppure conclusa, che di fatto segna un baratro con Nichi Vendola. Ma questi tira dritto, ormai.
Già, Nichi non arretra dal suo progetto. Che non è quello della riproposizione di una sinistra antagonistica e antigovernativa ma il suo contrario, al punto di giocare la vita del suo partito, e il suo destino personale, proprio nella contesa per la guida del governo, mediante uno strumento certamente lontano dalla tradizione della sinistra classica come le primarie.
Vendola non cambia impostazione. Lo dimostrano la battaglia per il referendum anti-Porcellum per superare per sempre il proporzionale (a cui invece Bertinotti resta fedele), o il comizio di ieri sera a Bologna con Prodi (che «rappresenta un punto di riferimento per tutti coloro che intendono costruire un centrosinistra capace di guardare al futuro»): o, per converso, la presenza di Arturo Parisi alla manifestazione di Sel di sabato a Roma, o ancora lo dice la riservatissima riunione di oggi con economisti di area Pd o comunque di formazione liberal-democratica per verificare convegenze programmatiche, buone appunto per un programma di governo.
Bertinotti è fuori da tutto questo. C’è nella sua evoluzione (o involuzione) un’evidente analogia con la traiettoria di Pietro Ingrao, che d’altronde è una delle fonti essenziali del pensiero dell’ex presidente della camera: quando il Pci si sciolse diventando Pds, Ingrao scelse in in un primo momento di «lavorare nel gorgo» – nel nuovo partito – per poi prenderne via via le distanze, fino all’uscita e alla sostanziale adesione proprio a quella Rifondazione comunista all’epoca guidata da Bertinotti.
Così anche quest’ultimo. Ideologo della nuova Sel, dopo la rottura con Ferrero e la “vecchia” Rifondazione, Bertinotti si deve essere reso conto, col passare dei mesi e l’assunzione da parte del nuovo partito di una connotazione fortemente personalistica (che egli, in virtù di una formazione culturale di segno opposto, non può far propria), che la famosa “narrazione” vendoliana non riesce a riempire quel vuoto politico creatosi a sinistra, una volta accertato (da lui) il definitivo «spostamento al centro» (definizione ancora di Ingrao) del Partito democratico.
Ma negli ultimissimi mesi c’è stato qualcosa di più: la definitiva presa d’atto che occorra una palingenesi («una destrutturazione dei corpi inerti e la resurrezione di una nuova sinistra», così disse ad agosto a Cortina), a fondamento della quale, ovviamente, c’è la sconsolata constatazione che «la sinistra è morta».
Una sinistra – come afferma su Gli Altri oggi in edicola – che è «un desaparecido, un ente pressoché inutile», incapace di sviluppare una coerente critica dell’esistente.
Per Bertinotti, in sostanza, sono tutti “dentro” l’apparato concettuale che sottende questa fase del capitalismo, ivi comprese le sue strutture istituzionali: e in questo senso la sua critica all’evoluzione in senso maggioritario di Vendola non potrebbe essere più netta.
Il punto più critico, tuttavia, è che nel nuovo Bertinotti non si capisce come, e da dove, ricominciare: probabilmente, ancora una volta, dai movimenti, dalle lotte, dalle proteste, ma quali, precisamente, nemmeno lui lo sa. Ritiene che la grande crisi sia destinata a produrre molto, su questo terreno, anche se le incognite sulla politicità di questi moti sono moltissime. È un’analisi, probabilmente neppure conclusa, che di fatto segna un baratro con Nichi Vendola. Ma questi tira dritto, ormai.
Mario Lavia
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