VIII CONGRESSO
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MATERIALE DEL PROSSIMO CONGRESSO DI RIFONDAZIONE. Per chi volesse saperne di più cliccare QUI
MATERIALE DEL COMITATO POLITICO NAZIONALE PER IL PROSSIMO CONGRESSO. Per chi volesse conoscere tutti i contenuti cliccare QUI
martedì 6 dicembre 2011
VIII Congresso: eletta la nuova Segreteria con Rinaldi e Rocchi
I compagni di Rifondazione per la Sinistra Rosa Rinaldi ed Augusto Rocchi sono stati confermati membri della Segreteria Nazionale del Partito. A Rosa e ad Augusto le congratulazioni e gli auguri di buon lavoro di tutte le compagne e di tutti i compagni. Oltre che da Rosa e da Augusto la segreteria sarà composta dai compagni Paolo Ferrero, Segretario del Partito, Mimmo Caporusso, Tesoriere, Irene Bregola, Roberta Fantozzi, Marco Gelmini, Claudio Grassi e Gialuigi Pegolo.
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VIII Congresso: Gianluca Schiavon presidente del Collegio Nazionale di Garanzia
Gianluca Schiavon, compagno di Rifondazione per la Sinistra, è stato eletto Presidente del Collegio Nazionale di Garanzia.
A Gianluca le congratulazioni e gli auguri di buon lavoro di tutte le compagne e tutti i compagni di RPS!
lunedì 21 novembre 2011
Convochiamo gli stati generali della Sinistra d'Alternativa
Proponiamo nel nostro documento una ambiziosa agenda composta da obiettivi programmatici e di questioni teoriche, in un percorso di ricerca intrecciato con la pratica politica; un cambio di lenti per guardare, alla società, ai soggetti che la popolano e alle contraddizioni che l'attraversano.
Per una strategia politica: quella che riconosce la necessità di ricostruzione di una cultura e di un senso comune diffuso come precondizione per una sfida ai poteri dominanti.
Tanto più si rafforza questa necessità nella fase acuta della crisi capitalista e del neoliberismo con il Paese sull'orlo del fallimento economico, sociale, politico.
La caduta di Berlusconi dovuta non già all'incalzare dell'opposizione, dei movimenti di massa, delle organizzazioni sociali, che difendono le condizioni di vita dei lavoratori e delle famiglie, ma dalla crisi dei mercati e dal ruolo del Presidente della Repubblica che assume su di sé, al limite dei compiti assegnati dalla Costituzione, nel vuoto di proposta politica, il ruolo di difesa degli interessi nazionali chiedendo alle forze politiche presenti in Parlamento di assecondare la sostituzione della politica con un governo "tecnico" una "casta" più presentabile in luogo di quella berlusconiana.
Il governo Monti è esposto al rischio che il morto, cioè il berlusconismo e i suoi apparati predisposti alla raccolta del consenso, afferri il vivo, cioè la possibilità di una uscita da sinistra dalla crisi e un rilancio delle forme di democrazia e partecipazione. Precondizione, evidente, ad una politica dei sacrifici che penalizzerà i ceti più deboli della società.
In questo contesto nessun governo, se non rimette in discussione le modalità e il ruolo dell'Europa e della Bce è in grado di offrire vie di uscita diverse da quella greca.
Per parte nostra dobbiamo lavorare alla ricostruzione della sinistra di alternativa che affronti il problema aperto di come una coscienza antagonista, anticapitalista, comunista possa formarsi e organizzarsi a partire dalle sue condizioni di vita e di lavoro per divenire soggetto della trasformazione. In altri termini del ruolo come e se, oggi, le nostre culture politiche siano adeguate ad interpretare la realtà e la necessità della rivoluzione come interpretazione del presente e come risposta alla crisi costituente in atto.
Abbiamo bisogno di un cambio di passo perché la necessità del cambiamento e l'acuirsi della crisi trovino il partito e i gruppi dirigenti adeguati all'impegno che la fase richiede e per dare una risposta al restringimento degli spazi di democrazia essendo consapevoli della degenerazione in atto nella società e nell istituzioni.
Da soli non ce la facciamo, per questo ritengo che, assieme ad altri, dovremmo definire la convocazione degli Stati Generali della sinistra di alternativa per affrontare le questioni drammatiche aperte nel Paese. Primo tra tutti il lavoro e i rapporti di dominio in questo nuovo modo di produzione. Il sindacato e il ruolo che parte di esso ha assunto, le difficoltà di risposta in assenza di un certo e forte riferimento politico anche delle organizzazioni sindacali che con coraggio resistono nella difesa delle condizioni di lavoro, normative e salariali.
Compiti difficili ma: "se non ora quando?". Se non li affrontiamo noi che siamo poeti tanto da definirci, e voler restare, comunisti, questo grumo di questioni, nessun altro, possiamo starne certi lo farà.
Per una strategia politica: quella che riconosce la necessità di ricostruzione di una cultura e di un senso comune diffuso come precondizione per una sfida ai poteri dominanti.
Tanto più si rafforza questa necessità nella fase acuta della crisi capitalista e del neoliberismo con il Paese sull'orlo del fallimento economico, sociale, politico.
La caduta di Berlusconi dovuta non già all'incalzare dell'opposizione, dei movimenti di massa, delle organizzazioni sociali, che difendono le condizioni di vita dei lavoratori e delle famiglie, ma dalla crisi dei mercati e dal ruolo del Presidente della Repubblica che assume su di sé, al limite dei compiti assegnati dalla Costituzione, nel vuoto di proposta politica, il ruolo di difesa degli interessi nazionali chiedendo alle forze politiche presenti in Parlamento di assecondare la sostituzione della politica con un governo "tecnico" una "casta" più presentabile in luogo di quella berlusconiana.
Il governo Monti è esposto al rischio che il morto, cioè il berlusconismo e i suoi apparati predisposti alla raccolta del consenso, afferri il vivo, cioè la possibilità di una uscita da sinistra dalla crisi e un rilancio delle forme di democrazia e partecipazione. Precondizione, evidente, ad una politica dei sacrifici che penalizzerà i ceti più deboli della società.
In questo contesto nessun governo, se non rimette in discussione le modalità e il ruolo dell'Europa e della Bce è in grado di offrire vie di uscita diverse da quella greca.
Per parte nostra dobbiamo lavorare alla ricostruzione della sinistra di alternativa che affronti il problema aperto di come una coscienza antagonista, anticapitalista, comunista possa formarsi e organizzarsi a partire dalle sue condizioni di vita e di lavoro per divenire soggetto della trasformazione. In altri termini del ruolo come e se, oggi, le nostre culture politiche siano adeguate ad interpretare la realtà e la necessità della rivoluzione come interpretazione del presente e come risposta alla crisi costituente in atto.
Abbiamo bisogno di un cambio di passo perché la necessità del cambiamento e l'acuirsi della crisi trovino il partito e i gruppi dirigenti adeguati all'impegno che la fase richiede e per dare una risposta al restringimento degli spazi di democrazia essendo consapevoli della degenerazione in atto nella società e nell istituzioni.
Da soli non ce la facciamo, per questo ritengo che, assieme ad altri, dovremmo definire la convocazione degli Stati Generali della sinistra di alternativa per affrontare le questioni drammatiche aperte nel Paese. Primo tra tutti il lavoro e i rapporti di dominio in questo nuovo modo di produzione. Il sindacato e il ruolo che parte di esso ha assunto, le difficoltà di risposta in assenza di un certo e forte riferimento politico anche delle organizzazioni sindacali che con coraggio resistono nella difesa delle condizioni di lavoro, normative e salariali.
Compiti difficili ma: "se non ora quando?". Se non li affrontiamo noi che siamo poeti tanto da definirci, e voler restare, comunisti, questo grumo di questioni, nessun altro, possiamo starne certi lo farà.
Stefano ZUCCHERINI
Direzione Nazionale PRC
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lunedì 7 novembre 2011
Riflessioni sulla comunicazione
Quelle seguenti sono alcune riflessioni sulla urgente necessità che il Partito ha di affrontare il tema della comunicazione in maniera più approfondita di quanto, per diverse ragioni, non sia stato fatto fino ad oggi. Sono state presentate in forma di contributo alla discussione congressuale, e soltanto uno spunto di discussione vogliono essere.
PER ORGANIZZARE È NECESSARIO COMUNICARE
Il tema è lapalissiano ma, per quanto ci riguarda, ancora parzialmente considerato.
Basta rifarsi ai documenti presentati per il prossimo congresso: quale più, quale un po' meno, tutti peccano di una colpevole prolissità, tale da far perdere di vista, a un normale lettore, la scala delle priorità degli obiettivi e, temo, far perdere pure l'interesse alla lettura dei documenti stessi.
Possiamo raccontarci che è dovere dei compagni della base sforzarsi a leggere dei documenti, pur se ostici; ma piuttosto che auspicare un ricambio, anche fisico, dei nostri elettori, penso sia più corretto affrontare il problema su come dire le cose, oltre che su cosa dire.
I NUOVI MEDIA
Da un recente rapporto Censis su "I media personali nell'era digitale" emerge che l'utenza del web, nel 2011, ha sfondato la soglia del 50% della popolazione italiana. La televisione è ancora il primo canale di informazione, i giornali perdono il 7% di lettori in 2 anni. E i giovani utilizzano google e social network per avere oltre il 60% delle loro notizie.
Questo dato è soggetto ad una forte divaricazione tra giovani ed anziani (87 % - 15%) e tra soggetti più istruiti (72%) e quelli meno scolarizzati (37,7).
E' evidente come un partito che non voglia essere superato dai fatti deve fare i conti col web: e una presenza “organizzata” sui social network (FB, Twitter, Google+) così come sulla Blogosfera diventa obbligatoria.
Per “organizzata è da intendere la definizione di un luogo comune a tutto il partito e non la presenza frammentaria dei singoli dirigenti su dei blog personali che, se pure generano discussione, lo fanno, normalmente, all'interno delle varie tifoserie.
TRADITIONAL MEDIA
I sistemi tradizionali di propaganda: manifesti, volantinaggi, giornali di zona, non sono superati perché hanno ancora tutta l’efficacia e l’indispensabilità del lavoro territoriale; è attraverso questo che ti confronti e contatti il territorio, le popolazioni, i movimenti e fai lotta e “squadra”.
E’ in queste situazioni che la gente ti “riconosce” , a livello territoriale, per la tua storia personale, per le idee che proponi e per il lavoro di organizzazione e presenza nelle lotte.
E’ in queste situazioni che la gente ti “riconosce” , a livello territoriale, per la tua storia personale, per le idee che proponi e per il lavoro di organizzazione e presenza nelle lotte.
Anche questo, però, funziona se supportato dalla comunicazione giusta, chiara, che colpisce, che lascia il “segno”, che si fa leggere e riconoscere; troppo materiale viene ”archiviato” già solo dopo aver letto il titolo.
DOBBIAMO IMPARARE a rivolgerci ai possibili lettori cercando di utilizzare un linguaggio attuale ed adatto al mezzo scelto, e tenendo conto che prima di essere ascoltati dobbiamo essere notati, dobbiamo conquistarci un posto preciso nell'immaginario di quei lettori.
LA COMUNICAZIONE INTERNA DEL PARTITO
Lo scollamento e la mancanza di informazione tra gli stessi compagni/e all’interno delle singole Federazioni e/o zone è uno dei dati di “frustrazione” che più spesso emerge tra i militanti:
Per un discorso piùgenerale sulla comunicazione del informazioni scarse, spesso vecchie, poco collegamento tra le realtà anche della stessa zona, spesso anche all’interno dei circoli.
Per un discorso piùgenerale sulla comunicazione del informazioni scarse, spesso vecchie, poco collegamento tra le realtà anche della stessa zona, spesso anche all’interno dei circoli.
C'è la necessità di avere un sito nazionale che non sia solo uno strumento istituzionale.
Come accennavamo precedentemente riguardo ai blog, bisognerebbe utilizzare questo strumento a cascata sui siti/blog delle varie federazioni per aver la possibilità di “sentire” la base ed interagire con essa.
Per valutare quanto la voglia di partecipazione sia diffusa basta andare in qualcuno dei gruppi spontanei nati su FB...
Come accennavamo precedentemente riguardo ai blog, bisognerebbe utilizzare questo strumento a cascata sui siti/blog delle varie federazioni per aver la possibilità di “sentire” la base ed interagire con essa.
Per valutare quanto la voglia di partecipazione sia diffusa basta andare in qualcuno dei gruppi spontanei nati su FB...
IMMAGINE ESTERNA
Oggi come oggi, che ci piaccia o no, la semplificazione (banalizzazione) del messaggio politico ha portato alla identificazione di una proposta , anche complessa, con un soggetto che la personifica.
Quindi il personaggio che “buca lo schermo”, è indispensabile su questo fronte.
Come è pure indispensabile l'utilizzo di un lessico che ci renda attuali (nel senso di contemporanei) e che non sappia di stantio.
Quindi il personaggio che “buca lo schermo”, è indispensabile su questo fronte.
Come è pure indispensabile l'utilizzo di un lessico che ci renda attuali (nel senso di contemporanei) e che non sappia di stantio.
Questo non significa rifugiarsi nel Leader carismatico (l'esperienza di SEL e Vendola è quanto di più lontano dalla nostra realtà), significa ricercare e, quando possibile, sfruttare una opportunità.
BRAND PROFILE
Per una serie di ragioni che è inutile provare ad analizzare in queste poche righe ma che, prima o poi, sarebbe opportuno affrontare, esiste una consistente discrepanza tra il posto che vorremmo avere nell'immaginario del nostro target elettorale di riferimento e quello che occupiamo stabilmente ormai da un po' di tempo. Dobbiamo però rassegnarci al fatto che una (auspicabile) coerenza di comportamenti non supportata da una coerenza comunicativa paga pegno molto di più che non il contrario.
E questo vorrà pur dire qualcosa.
Quindi, a meno di non voler incamminarci verso una neanche troppo lenta estinzione, dovremmo attuare una seria politica di brand management che attraverso una comunicazione mirata esalti l'identità, la personalità e i valori positivi del nostro brand.
Non ci sono altre strade: se nei sondaggi sulle eventuali prossime elezioni politiche nazionali veniamo stabilmente dati al di sotto del 2% il problema non è (solo) perchè subiamo un oscuramento mediatico; è perchè a quel livello, a differenza che sul piano locale, semplicemente non siamo riconosciuti.
E anche questo vorrà pur significare qualcosa.
E questo vorrà pur dire qualcosa.
Quindi, a meno di non voler incamminarci verso una neanche troppo lenta estinzione, dovremmo attuare una seria politica di brand management che attraverso una comunicazione mirata esalti l'identità, la personalità e i valori positivi del nostro brand.
Non ci sono altre strade: se nei sondaggi sulle eventuali prossime elezioni politiche nazionali veniamo stabilmente dati al di sotto del 2% il problema non è (solo) perchè subiamo un oscuramento mediatico; è perchè a quel livello, a differenza che sul piano locale, semplicemente non siamo riconosciuti.
E anche questo vorrà pur significare qualcosa.
Sandro Romagnoli
Luigi Marchitelli
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Romagnoli Sandro
Una forza politica all'offensiva
Proprio l'altro ieri eravamo impegnati come Rifondazione Comunista, unitamente all'Unione Inquilini e al Comitato di lotta per il diritto alla casa, in un presidio che ha impedito lo sfratto di Rita da parte di un sindaco di area leghista di un paese bergamasco. Una delle tante, innumerevoli iniziative di solidarietà e di lotta a cui abbiamo dato vita nel corso di questi anni in tema di diritti al lavoro, alla casa, allo studio, alla cittadinanza. Cosa c'entra tutto questo col dibattito congressuale in corso? C'entra, eccome!
Il tema della ripresa della "rifondazione della rifondazione" e della ricostruzione di una più larga sinistra di alternativa lo stiamo affrontando nell'occhio del ciclone di una crisi che tende a distruggere tutto il quadro dei diritti sociali e democratici. La mia convinzione è che non c'è nessunissima possibilità di riuscita di questa sfida alla ricostruzione e alla riprogettazione della sinistra se non vivendola, innanzitutto, come qualcosa che sta sul terreno della realtà della crisi e delle contraddizioni operanti del capitalismo contemporaneo. Peraltro questo indirizzo di lavoro l'abbiamo già sperimentato a livello territoriale - ripensare la politica in rapporto a ciò che si muove nella società - col risultato, in anni di oscuramento, di marginalizzazione istituzionale di diventare non lo specchio di difficoltà ma addirittura di realizzare un quadro di crescita e di espansione del partito. Questo percorso impegnativo è tutto quanto da sviluppare, ancor più oggi, in una situazione caratterizzata da forti correnti di malcontento e di opposizione, da una diffusione del conflitto, dalla rimessa in campo di nuovi bisogni sociali, di nuovi obiettivi della trasformazione. Torniamo a essere ambiziosi! Lavoriamo per un Congresso che si caratterizzi per una forte spinta innovatrice unitaria. Torniamo a presentarci come forza politica aperta e all'offensiva in modo da smentire una volta per tutte quanti hanno lavorato alla liquidazione nostra e di qualsiasi idea di sinistra di alternativa.
Certo io penso anche che questa precisa scelta di andare alla ricostruzione del movimento e della sinistra di alternativa come due facce della stessa medaglia non deve diventare semplicemente un fatto volontaristico. Serve una proposta, un ragionamento di prospettiva politica che ci consenta di tornare a essere percepiti come una possibilità di cambiamento politico.
Ci sono dei passaggi cruciali nelle vicende politiche che hanno rappresentato dei veri e propri spartiacque fra un prima e un dopo. Questo è uno di questi passaggi: la crisi capitalistica, le crepe dell'ideologia neoliberista, i vent'anni di potere di Berlusconi che volgono al termine. Nulla rimarrà come prima. La crisi apre un ciclo nuovo di cui vanno colte le potenzialità positive ma, in senso opposto, la possibilità anche che la crisi possa ulteriormente degenerare in assenza di sbocchi politici. Per rendere possibile questi sbocchi dobbiamo agire in due direzioni: l'unità della sinistra, non l'unità nominalistica e di facciata, ma l'unità costruita sul terreno concreto delle risposte da dare alla crisi; il tema delle alleanze politiche - non alleanze di governo di cui non ci sono le condizioni - per determinare un quadro politico più avanzato dentro cui agire la nostra prospettiva di cambiamento. Infine riscopriamo il pensiero comunista non come pensiero passatista, adagiato sui luoghi comuni ma pensiero critico, libertario che vive sul terreno della contemporaneità e della pratica di trasformazione che è la grande lezione di Marx.
Il tema della ripresa della "rifondazione della rifondazione" e della ricostruzione di una più larga sinistra di alternativa lo stiamo affrontando nell'occhio del ciclone di una crisi che tende a distruggere tutto il quadro dei diritti sociali e democratici. La mia convinzione è che non c'è nessunissima possibilità di riuscita di questa sfida alla ricostruzione e alla riprogettazione della sinistra se non vivendola, innanzitutto, come qualcosa che sta sul terreno della realtà della crisi e delle contraddizioni operanti del capitalismo contemporaneo. Peraltro questo indirizzo di lavoro l'abbiamo già sperimentato a livello territoriale - ripensare la politica in rapporto a ciò che si muove nella società - col risultato, in anni di oscuramento, di marginalizzazione istituzionale di diventare non lo specchio di difficoltà ma addirittura di realizzare un quadro di crescita e di espansione del partito. Questo percorso impegnativo è tutto quanto da sviluppare, ancor più oggi, in una situazione caratterizzata da forti correnti di malcontento e di opposizione, da una diffusione del conflitto, dalla rimessa in campo di nuovi bisogni sociali, di nuovi obiettivi della trasformazione. Torniamo a essere ambiziosi! Lavoriamo per un Congresso che si caratterizzi per una forte spinta innovatrice unitaria. Torniamo a presentarci come forza politica aperta e all'offensiva in modo da smentire una volta per tutte quanti hanno lavorato alla liquidazione nostra e di qualsiasi idea di sinistra di alternativa.
Certo io penso anche che questa precisa scelta di andare alla ricostruzione del movimento e della sinistra di alternativa come due facce della stessa medaglia non deve diventare semplicemente un fatto volontaristico. Serve una proposta, un ragionamento di prospettiva politica che ci consenta di tornare a essere percepiti come una possibilità di cambiamento politico.
Ci sono dei passaggi cruciali nelle vicende politiche che hanno rappresentato dei veri e propri spartiacque fra un prima e un dopo. Questo è uno di questi passaggi: la crisi capitalistica, le crepe dell'ideologia neoliberista, i vent'anni di potere di Berlusconi che volgono al termine. Nulla rimarrà come prima. La crisi apre un ciclo nuovo di cui vanno colte le potenzialità positive ma, in senso opposto, la possibilità anche che la crisi possa ulteriormente degenerare in assenza di sbocchi politici. Per rendere possibile questi sbocchi dobbiamo agire in due direzioni: l'unità della sinistra, non l'unità nominalistica e di facciata, ma l'unità costruita sul terreno concreto delle risposte da dare alla crisi; il tema delle alleanze politiche - non alleanze di governo di cui non ci sono le condizioni - per determinare un quadro politico più avanzato dentro cui agire la nostra prospettiva di cambiamento. Infine riscopriamo il pensiero comunista non come pensiero passatista, adagiato sui luoghi comuni ma pensiero critico, libertario che vive sul terreno della contemporaneità e della pratica di trasformazione che è la grande lezione di Marx.
Ezio Locatelli
direzione nazionale PRC
giovedì 3 novembre 2011
Un vasto schieramento per sconfiggere le destre
Una crisi intrinseca di lunga durata, causata da un trentennio di politiche neoliberiste, che dopo il 2008 si è incamminata verso una fase di forte criticità strutturale, deve fare i conti oggi con tre fattori essenziali: la dimensione del debito accumulato per sostenere l'incongruità del sistema, l'incapacità della politica di gestire la tendenza speculativa dei processi economici dominanti, le distorsioni organiche del sistema bancario. Per scongiurare tale esito il capitalismo, egemone sul governo degli Stati, sferra un poderoso attacco al lavoro, nel tentativo di assoggettarlo definitivamente, colpendone i suoi elementi ordinativi: tempi, modi e valore ed attaccandone il terreno dei diritti.
In tale contesto la risposta del 15 ottobre può essere assunta come l'iniziale cammino di un nuovo movimento che vuole mettere in discussione in tutto il mondo l'egemonia culturale del government globale.
La crisi, quindi, come dice Fausto Bertinotti, potrebbe divenire un'occasione, ma ciò non è scontato.
A Roma la straordinaria manifestazione degli indignados, che ha subito la gravissima violenza teppistica di qualche manipolo di irresponsabili, ha rilanciato l'opposizione sociale al disegno neoliberista e, insieme alle successive manifestazioni della Fiom, per il lavoro ed i diritti, e del movimento della Val di Susa, contro la Tav, ha segnato una ripresa delle lotte.
La fase consegna, quindi, un compito decisivo alle forze di alternativa. Occorre non farsi risucchiare nel recinto della "politica istituzionale" e continuare con determinazione a costruire una linea di azione sinergica con i movimenti, come è stato nell'eroica battaglia referendaria per la difesa dei beni comuni.
Forze politiche e movimenti devono rivendicare le loro peculiarità, ma nel contempo lavorare per superare ogni deleterio distacco. Le connessioni che li legano costituiscono una risorsa fondamentale, che li vedrebbe invece condannati all'impotenza ove tali sinergie non sussistessero.
I movimenti guardano con attenzione alle forze politiche alle quali avanzano richieste, rivendicazioni, esprimendo l'esigenza di una sponda politica aderente alle istanze di lotta. E' nostro compito non lasciare inevaso tale bisogno.
Il processo dell'unità della sinistra di alternativa, su cui dobbiamo spendere ogni nostro impegno, diviene decisivo per il raggiungimento di tale obiettivo.
D'altra parte, la netta separazione dei movimenti dalla sfera della politica, impedirebbe di esprimere elementi di significativo cambiamento sullo stato attuale delle cose, depotenziando la possibilità di mutare i preesistenti rapporti di forza e le sorti del conflitto sociale e politico.
Contro pericolose derive o effimere suggestioni, in questa fase, diviene obbligatoria la proposta del Fronte Democratico. Occorre fare parte di un vasto schieramento di centrosinistra per sconfiggere le destre. All'interno di tale processo bisognerà esprimere punti programmatici di radicale cambiamento, ma senza la partecipazione ad un futuro governo ed alle sue inevitabili logiche di compatibilità e subordinazione al sistema economico neoliberista.
In tale contesto la risposta del 15 ottobre può essere assunta come l'iniziale cammino di un nuovo movimento che vuole mettere in discussione in tutto il mondo l'egemonia culturale del government globale.
La crisi, quindi, come dice Fausto Bertinotti, potrebbe divenire un'occasione, ma ciò non è scontato.
A Roma la straordinaria manifestazione degli indignados, che ha subito la gravissima violenza teppistica di qualche manipolo di irresponsabili, ha rilanciato l'opposizione sociale al disegno neoliberista e, insieme alle successive manifestazioni della Fiom, per il lavoro ed i diritti, e del movimento della Val di Susa, contro la Tav, ha segnato una ripresa delle lotte.
La fase consegna, quindi, un compito decisivo alle forze di alternativa. Occorre non farsi risucchiare nel recinto della "politica istituzionale" e continuare con determinazione a costruire una linea di azione sinergica con i movimenti, come è stato nell'eroica battaglia referendaria per la difesa dei beni comuni.
Forze politiche e movimenti devono rivendicare le loro peculiarità, ma nel contempo lavorare per superare ogni deleterio distacco. Le connessioni che li legano costituiscono una risorsa fondamentale, che li vedrebbe invece condannati all'impotenza ove tali sinergie non sussistessero.
I movimenti guardano con attenzione alle forze politiche alle quali avanzano richieste, rivendicazioni, esprimendo l'esigenza di una sponda politica aderente alle istanze di lotta. E' nostro compito non lasciare inevaso tale bisogno.
Il processo dell'unità della sinistra di alternativa, su cui dobbiamo spendere ogni nostro impegno, diviene decisivo per il raggiungimento di tale obiettivo.
D'altra parte, la netta separazione dei movimenti dalla sfera della politica, impedirebbe di esprimere elementi di significativo cambiamento sullo stato attuale delle cose, depotenziando la possibilità di mutare i preesistenti rapporti di forza e le sorti del conflitto sociale e politico.
Contro pericolose derive o effimere suggestioni, in questa fase, diviene obbligatoria la proposta del Fronte Democratico. Occorre fare parte di un vasto schieramento di centrosinistra per sconfiggere le destre. All'interno di tale processo bisognerà esprimere punti programmatici di radicale cambiamento, ma senza la partecipazione ad un futuro governo ed alle sue inevitabili logiche di compatibilità e subordinazione al sistema economico neoliberista.
Antonio Marotta
segretario regionale PRC Sicilia
giovedì 27 ottobre 2011
Continua il dibattito sull'editoriale di Bertinotti: l'intervento di Gianluca Schiavon
Il merito dell’ultimo editoriale su Alternative per il Socialismo è quello di riportare la discussione politica sul campo che le pertiene: lo spazio continentale. Solo collocando nella sfera dell’accessorietà le vicende italiane si può provare a elaborare un’analisi non guastata dal provincialismo. Bertinotti individua la lunga annata di crisi economico-finanziaria come un tornante storico e, quindi, una opportunità per le forze radicalmente democratiche, cioè per le forze autenticamente di sinistra. Occorre partire dal fenomeno nuovo: il “colpo di Stato neoliberista” posto in essere non solo da banchieri e boiardi, ma anche da una classe politica corriva alle multinazionali e ai potentati finanziari. Un sistema che ha sottratto ai Parlamenti il ruolo di legislatori e che non ha mai consegnato un effettivo potere normativo al Parlamento europeo. Una classe politica fallita e parassitaria a livello continentale che continua a scaricare la crisi su chi ha valorizzato o valorizza i capitali altrui. Il genio ebraico libertario di Karl Polanyi avrebbe stigmatizzato “l’ostinata e veemente insistenza degli economisti liberali nei loro errori”. Errori sui quali insistono sostenendo la necessità e l’urgenza dei medesimi. La necessità nel cancellare diritti frutto di decenni di lotte sarebbe per costoro il frutto dell’urgenza di placare lo stato parossistico dei mercati e, si sa, necessitas legem non habet. Lo strumento con cui vengono assunte le decisioni è sempre uno strumento del Governo (il decreto, l’ordinanza) ed è lo strumento con cui il Governo ripropone le scelte dell’Amministrazione. Questa Europa mette in discussione i suoi fondamentali: il primato delle Costituzioni formali ma, di più, il primato della legge sul provvedimento, della regola generale ed astratta sulla disposizione ad hoc. Si rovescia completamente il fondamento della sovranità poiché la sovranità appartiene ai Governi siano essi monocratici (i Presidenti della Repubblica) ovvero direttoriali (Presidente del Consiglio, Ministro del Tesoro e Governatore della Banca centrale). Tutta l’enfasi sul buon governo efficiente ed efficacie che semplifica le decisioni e migliora la democrazia delle chiacchiere ci fa uscire dal ’900 tornando a forme statuali e a teorie sullo Stato mutuate dal secolo XVII. E’ arcinoto che lo Stato moderno evolve togliendo potere all’esecutivo a favore del legislativo e allargando al massimo la base della rappresentanza. Giusta questa analisi la sinistra istituzionale o è già morta (la tesi di Bertinotti) oppure rischia la morte se pensa se stessa come sinistra di governo o, meglio, se si pensa come sinistra entro questo recinto di governo. Può la sinistra decidere sullo Stato d’eccezione? Possono i socialisti belgi sostituire un Governo privo di legittimazione parlamentare da un anno e mezzo compiendo come primo atto il salvataggio della banca Dexia a spese dei lavoratori? Può il presidente del partito socialista europeo usare il coprifuoco in Grecia per far passare i tagli imposti dalla trojka (BCE-FMI-UE)? La sinistra invece vive se dà priorità a progettare un altro sistema poi, eventualmente, con nuovi rapporti di forza sociali un altro governo. Per questo le ragioni dei 500.000 in piazza il 15 ottobre sono il perno della piattaforma per l’alternativa: se la sinistra non si concentra solo su queste ragioni emergeranno sempre più i ‘grumi di rabbia’ che trasformano le manifestazioni in jacquerie. L’appello ¡Democracia real ya! –ad esempio – mira a ridare vitalità a poteri fondamentali per le democrazie contemporanee: il potere legislativo e gli istituti di democrazia diretta. L’Italia, in particolare, si colloca tra i Paesi nei quali la democrazia parlamentare è cancellata. Tremonti, Calderoli, Sacconi con la manleva di Napolitano hanno prodotto una manovra economica costituente. Il Governo ha scelto di sostituirsi completamente al Parlamento imponendo per decreto legge e con la fiducia un testo che fa strame del contratto nazionale di lavoro, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, dell’autonomia di Comuni, Province e Regioni, del principio di progressività del fisco. Dobbiamo contrapporre alla politica personalistica quella fondata sulla difesa del potere delle assemblee legislative nazionali e regionali contro lo stra-potere di troppi feudatari (Sindaci e Presidenti di Giunte). Contrapponiamo al pessimo uso di soldi pubblici in indennità, consulenze e i consigli d’amministrazione la rappresentanza democratica elettiva e il diritto di voto per i nativi e i migranti. Possiamo ridare forza alla Repubblica italiana fondata sulla resistenza riportando al Parlamento il potere di nominare e sostituire i Governi. Diamo ancora un significato alle elezioni con la parola d’ordine “una testa un voto” cioè con una legge elettorale proporzionale che rappresenti i soggetti sociali e le differenti culture politiche invece delle consorterie e delle corporazioni? E sul livello continentale possiamo invocare una fase costituente dal basso dell’Unione europea. Una vera e propria rifondazione dell’UE a partire dal suo principale capestro: la Banca centrale. Costruendo l’alternativa a questa Europa a più velocità, classista, subalterna all’atlantismo e alle sue politiche di guerra provando a riequilibrare l’influenza dell’asse neocarolingio della borghesia franco-tedesca con regole che diano un peso proporzionale alle popolazioni e alle culture che in questa Europa ancora albergano. Il primo nemico da combattere è una economia finanziaria otto volte più forte e potente dell’economia reale e quasi totalmente priva di regole e contrappesi. E questo nemico può essere battuto rilanciando l’antica parola d’ordine della democrazia economica: cioè la democratizzazione della decisione su cosa, dove e come produrre. Si tratta di un vero programma di governo oggi espulso da tutti i pretendenti ai governi (o al governo) europei. Un programma che per affermarsi abbisogna di un conflitto articolato e di lunga durata, non della violenza anonima e brutale di un migliaio di persone che – solo a Roma – hanno rovinato una manifestazione unitaria mondiale. Un conflitto che ravviverà la partecipazione e così facendo permetterà un dialogo su parole d’ordine nuove e più avanzate tra sinistra comunista, socialista, libertaria.
Direzione nazionale PRC-FdS
Da: Gli Altri 21.10.2011
lunedì 3 ottobre 2011
Sel e Prc, Nuovo Ulivo e Bce: Bertinotti anima il dibattito
Gli aspetti evocativi innegabilmente ci sono: lo dimostrano titoli come "Fausto dà l'addio a Nichi", oppure "Sel perde il suo padre nobile". E ancora "Contrordine compagni questa sinistra non va più bene", o il titolo tranchant di Libero "Bertinotti rispunta col machete: accompagnare l'aria di rivolta". Legami sentimentali, vecchi e nuovi, che si intrecciano e si sciolgono. Anche questa è la storia della sinistra italiana. Ma ci sono pure aspetti pratici, dal referendum neomaggioritario alla lettera-ordine di servizio della Banca centrale europea, che contrassegnano l'attuale fase politica della sinistra italiana. Unite al più classico degli interrogativi (di leniniana memoria): che fare? Tra nuovi Ulivi, fronti democratici contro il governo Berlusconi-Bossi e approcci al Terzo polo, la discussione è serrata. E se Fausto Bertinotti ribadisce ancora una volta che nessuna delle forze di sinistra italiane lo convince, il diritto di replica richiede di ascoltare chi quotidianamente si impegna all'interno della sinistra. "Pronto?". Dal'altra parte del telefono c'è il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero. "Che ne pensi delle osservazioni di Bertinotti?". «Sono d'accordo con Bertinotti sia quando boccia il sistema elettorale maggioritario, sia quando dice che nel contesto dato non è possibile fare un accordo di governo - precisa Ferrero - Sono due motivi che hanno portato alla scissione di Rifondazione del 2008. Il nodo è ormai venuto al pettine: chi ha cercato di far finta che fosse possibile moderare le politiche neoliberiste senza uscirne è rimasto completamente spiazzato dalla crisi. Più che un nuovo Ulivo occorreva una scelta netta, anche in Europa. Non per caso gli unici che si sono opposti alla politica Ue contestandola alla radice sono i compagni della linke in Germania, e del Synaspimos in Grecia». Altro telefonata. All'altro capo del filo c'è Alfonso Gianni, per anni strettissimo collaboratore di Bertinotti, anima ribelle di Sinistra ecologia e libertà, soprattutto fondatore di "Alternative per il socialismo", periodico cui l'ex presidente della Camera ha affidato il suo pensiero sulla fase politica. «L'articolo scritto da Bertinotti sulla nostra rivista è molto più complesso di quanto riportato da alcuni quotidiani - premette Gianni - Detto questo, ci sono posizioni diverse all'interno di Sel, non è un mistero, non c'è bisogno di tirar Bertinotti per la giacchetta». «Il problema di fondo - spiega - è se Sel debba essere o meno un soggetto politico autonomo sotto il profilo ideale e programmatico. Se bisogna parlare di alleanze o di come infilarsi in casa altrui». Esiste la possibilità di dare vita a un nuovo Ulivo o un nuovo centrosinistra? Gianni pensa che «non si possa sottovalutare il dato di un quadro politico europeo in evoluzione». Meno tranchant di Bertinotti. Quanto al referendum, Gianni è esplicito: «Avrei puntato sulla proposta Passigli, un proporzionale corretto alla tedesca anziché su un maggioritario corretto all'italiana. Fausto dice di fare saltare il recinto, il referendum è una gabbia». Gianluca Schiavon è uno dei più giovani membri della direzione nazionale di Rifondazione comunista. Cresciuto nella Rifondazione bertinottina, non nasconde il suo apprezzamento per alcune osservazioni del vecchio segretario del partito. «Un intervento di grande respiro. Bertinotti fotografa l'assenza di democrazia in Europa, e la sinistra prospera solo quando c'è democrazia. Alla luce di scelte antidemocratiche come quelle della Banca centrale europea, applaudita anche dalle forze parlamentari di opposizione, la domanda che ci poniamo è se la sinistra possa andare al governo oppure no». Schiavon si dà la risposta: «Penso che in queste condizioni sia praticamente impossibile andarci». Di più: «Con questo articolo, Bertinotti si mette in sintonia con il movimento che il 15 ottobre sarà in piazza in tutta Europa». Da Napoli risponde Peppe De Cristofaro, ex deputato del Prc, segretario partenopeo di Sel. Lui, che all'epoca delle elezioni amministrative non aveva fatto mistero di preferire la candidatura di Luigi De Magistris a quella di Mario Morcone, la vede così: «Una sinistra che resta alla finestra, che si ritaglia un ruolo marginale non mi convince. Milioni di persone hanno votato per l'acqua pubblica, nonostante il Pd fosse per la privatizzazione dei servizi. I democratici hanno rivisto la propria strategia. Penso che le condizioni per diventare maggioritari nella sinistra ci siano. Faccio un esempio, la patrimoniale. Prima era sostenuta solo dalla sinistra radicale, adesso la vogliono quasi tutti». Conclude De Cristofaro: «La crisi economica ci può paradossalmente consentire una piattaforma più avanzata su un programma che metta insieme forze politiche e movimenti». Ultimo ma non per ultimo Alberto Burgio, professore universitario a Bologna, da sempre voce fra le più ascoltate all'interno di Rifondazione comunista e non solo. «La prospettiva movimentista di Bertinotti non mi convince del tutto - dice subito Burgio - è solo la parte di un ragionamento. Mi spiego: all'espressione spontanea di conflittualità sociale deve corrisponde la capacità politica di forze organizzate. Bisogna lavorare ad una sinergia del sociale e del politico, è questa la chiave perché si determini un dinamica antagonistica. I movimenti senza politica sono costretti in una sussultoria spontaneità. La politica senza movimenti diventa tecnicismo istituzionale». La discussione continuerà, si accettano scommesse.
Frida Nacinovich
Frida Nacinovich
"Nessun governo con il Pd" Bertinotti, applausi dagli ex
Continua la discussione suscitata dall'editoriale di Fausto Bertinotti. Pubblichiamo articolo de Il manifesto.
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IL CASO - Ferrero, Prc: è tornato il leader del '98. Ma dica sì al fronte antidestre
«Nessun governo con il Pd» Bertinotti, applausi dagli ex
Il segretario e l'ex guida di Rifondazione uniti dalla legge elettorale. Preparano un confronto pubblico a Milano
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IL CASO - Ferrero, Prc: è tornato il leader del '98. Ma dica sì al fronte antidestre
«Nessun governo con il Pd» Bertinotti, applausi dagli ex
Il segretario e l'ex guida di Rifondazione uniti dalla legge elettorale. Preparano un confronto pubblico a Milano
«In queste sue ultime scelte ritrovo il Bertinotti del '98 (quello della rottura con Prodi, ndr) del 2001 (quello del Social Forum di Genova, ndr) insomma, per me il Bertinotti migliore». L'ultima «rottura» dell'ex segretario Prc piace molto a Paolo Ferrero, all'attuale segretario di quel partito, nel frattempo però passato per alcune scissioni. L'ultima, nel 2009. Spiega Ferrero: «In quell'occasione il tema di fondo era proprio il tema del governo e il rapporto con il Pd». Vendola e i suoi, che non escludevano una futura collaborazione con il centrosinistra, uscirono dal partito e fondarono Sinistra ecologia libertà. Bertinotti non vi aderì, ma si schierò con loro.
Ora, con l'acuirsi della crisi e il 'golpe' delle manovre d'agosto, neanche avversate dal Pd, Bertinotti ha scritto un saggio (esce in questi giorni su Alternative per il socialismo) che bolla come «ente inutile» la sinistra «che non sa dire di no», e che al pari delle destre «accompagna acriticamente la ristrutturazione capitalistica». Niente accordi, dunque. E indica la strada dell'autonomia dei movimenti «di lotta e di mobilitazione», rivolte e indignados.
La cronaca si incarica di dimostrare almeno il suo primo assunto: di ieri la pubblicazione di una lettera in cui la Bce indica la selvaggia cura economica a cui dovrebbe essere sottoposta l'Italia. Dal Pd nessuna contestazione di merito. «È evidente che il centrosinistra, per com'è oggi, non vuole fuoriuscire dal quadro dei vincoli monetari europei», ragiona Gianni Rinaldini, già segretario Fiom oggi fra i promotori di Uniti per l'alternativa, che prepara la mobilitazione del 15 ottobre. «La riedizione dell'Ulivo è destinata al fallimento, questo è sicuro e già dimostrato, basta guardare a Zapatero e alla Grecia. Il resto è oggetto di discussione».
Ma torniamo al Prc. Ferrero applaude il Fausto ritrovato. «Il punto, che noi avevamo individuato da tempo, è che non ci sono le condizioni per un governo con il centrosinistra. È la lezione di fondo dell'ultimo governo Prodi», di cui Ferrero era ministro e Bertinotti presidente della Camera. Ma stavolta Bertinotti non scavalca perfino la Rifondazione - che non vuole fare il governo con l'Ulivo ma propone comunque un fronte antidestre - e riecheggia l'antico «questo o quello pari sono», riferito agli schieramenti di destra e centrosinistra? Ferrero mette le mani avanti, ha letto il saggio solo negli stralci pubblicati dal manifesto, ma «se così fosse sbaglierebbe. Passerebbe dall'estremismo governista a quello della separazione consensuale del 2008, ai tempi della Sinistra arcobaleno, una delle principali cause della nostra distruzione. Pd e Pdl non sono pari, il governo Bersani garantirebbe un quadro costituzionale e non procederebbe alla demolizione rapida dei diritti e dello stato sociale».
In Rifondazione applausi a scena aperta, dunque. Il padre nobile di Sel sembra sconfessare la linea 'accordista' di Vendola e compagni. E non solo per manifesta incompatibilità con le ricette economiche del Pd. «Bertinotti concorda con noi anche sul fatto che il sistema bipolare maggioritario sia una gabbia che preclude la costruzione del nuovo spazio pubblico; e che, quindi, è un imbroglio il referendum in atto sul ripristino del "Mattarellum". Non a caso la rivendicazione prima degli "indignati" spagnoli è quella del sistema proporzionale», dice Giovanni Russo Spena. Mettendo il dito su un altro punto di contatto del vecchio segretario con l'ultimo Prc: la legge proporzionale. Vendola si è schierato con il referendum pro Mattarellum. E non poteva fare diversamente: il ritorno al proporzionale cancellerebbe le primarie per la premiership, eterno cavallo di battaglia di Vendola. Fu proprio Bertinotti, del resto, il primo a portare la sinistra sinistra alle primarie, quelle dell'Unione nel 2005.
«Siamo di nuovo in sintonia», spiega Augusto Rocchi, punto di riferimento dei bertinottiani non entrati in Sel. A patto che «non ci si chiuda nell'isolazionismo. Oggi Bertinotti dà ragione alla scelta di fondo del Prc: che non si è chiuso nel settarismo identitario, pur sapendo che le condizioni per un governo con il centrosinistra non ci sono». Ma è un riavvicinamento? In questi giorni l'ex presidente della Camera discute con molti suoi ex compagni di partito. La prossima settimana tornerà a Liberazione, il quotidiano del Prc, per un forum con Ferrero. E a novembre i due si sono dati un altro appuntamento pubblico, una tavola rotonda a Milano, assieme a Mario Tronti.
Ora, con l'acuirsi della crisi e il 'golpe' delle manovre d'agosto, neanche avversate dal Pd, Bertinotti ha scritto un saggio (esce in questi giorni su Alternative per il socialismo) che bolla come «ente inutile» la sinistra «che non sa dire di no», e che al pari delle destre «accompagna acriticamente la ristrutturazione capitalistica». Niente accordi, dunque. E indica la strada dell'autonomia dei movimenti «di lotta e di mobilitazione», rivolte e indignados.
La cronaca si incarica di dimostrare almeno il suo primo assunto: di ieri la pubblicazione di una lettera in cui la Bce indica la selvaggia cura economica a cui dovrebbe essere sottoposta l'Italia. Dal Pd nessuna contestazione di merito. «È evidente che il centrosinistra, per com'è oggi, non vuole fuoriuscire dal quadro dei vincoli monetari europei», ragiona Gianni Rinaldini, già segretario Fiom oggi fra i promotori di Uniti per l'alternativa, che prepara la mobilitazione del 15 ottobre. «La riedizione dell'Ulivo è destinata al fallimento, questo è sicuro e già dimostrato, basta guardare a Zapatero e alla Grecia. Il resto è oggetto di discussione».
Ma torniamo al Prc. Ferrero applaude il Fausto ritrovato. «Il punto, che noi avevamo individuato da tempo, è che non ci sono le condizioni per un governo con il centrosinistra. È la lezione di fondo dell'ultimo governo Prodi», di cui Ferrero era ministro e Bertinotti presidente della Camera. Ma stavolta Bertinotti non scavalca perfino la Rifondazione - che non vuole fare il governo con l'Ulivo ma propone comunque un fronte antidestre - e riecheggia l'antico «questo o quello pari sono», riferito agli schieramenti di destra e centrosinistra? Ferrero mette le mani avanti, ha letto il saggio solo negli stralci pubblicati dal manifesto, ma «se così fosse sbaglierebbe. Passerebbe dall'estremismo governista a quello della separazione consensuale del 2008, ai tempi della Sinistra arcobaleno, una delle principali cause della nostra distruzione. Pd e Pdl non sono pari, il governo Bersani garantirebbe un quadro costituzionale e non procederebbe alla demolizione rapida dei diritti e dello stato sociale».
In Rifondazione applausi a scena aperta, dunque. Il padre nobile di Sel sembra sconfessare la linea 'accordista' di Vendola e compagni. E non solo per manifesta incompatibilità con le ricette economiche del Pd. «Bertinotti concorda con noi anche sul fatto che il sistema bipolare maggioritario sia una gabbia che preclude la costruzione del nuovo spazio pubblico; e che, quindi, è un imbroglio il referendum in atto sul ripristino del "Mattarellum". Non a caso la rivendicazione prima degli "indignati" spagnoli è quella del sistema proporzionale», dice Giovanni Russo Spena. Mettendo il dito su un altro punto di contatto del vecchio segretario con l'ultimo Prc: la legge proporzionale. Vendola si è schierato con il referendum pro Mattarellum. E non poteva fare diversamente: il ritorno al proporzionale cancellerebbe le primarie per la premiership, eterno cavallo di battaglia di Vendola. Fu proprio Bertinotti, del resto, il primo a portare la sinistra sinistra alle primarie, quelle dell'Unione nel 2005.
«Siamo di nuovo in sintonia», spiega Augusto Rocchi, punto di riferimento dei bertinottiani non entrati in Sel. A patto che «non ci si chiuda nell'isolazionismo. Oggi Bertinotti dà ragione alla scelta di fondo del Prc: che non si è chiuso nel settarismo identitario, pur sapendo che le condizioni per un governo con il centrosinistra non ci sono». Ma è un riavvicinamento? In questi giorni l'ex presidente della Camera discute con molti suoi ex compagni di partito. La prossima settimana tornerà a Liberazione, il quotidiano del Prc, per un forum con Ferrero. E a novembre i due si sono dati un altro appuntamento pubblico, una tavola rotonda a Milano, assieme a Mario Tronti.
Daniela Preziosi
Il manifesto, 30 settembre 2011
venerdì 30 settembre 2011
Bertinotti: addio Nichi
Pubblichiamo questo articolo da Europa del 30 settembre 2011
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Una separazione ineluttabile, probabilmente anche dolorosa. Politica e intellettuale. Le ultime analisi di Fausto Bertinotti, che in fondo fu l’inventore di Sel e padre spirituale di Vendola, sono definitive: la sinistra è morta. Di fatto, è un addio. Un de profundis che colpisce Nichi in pieno volto che peraltro appare sempre più proiettato nella dimensione del governo: e le prossime mosse sono molto interessanti per verificare che il ciclone-Fausto, su Sel, non sortirà effetti politici.
Già, Nichi non arretra dal suo progetto. Che non è quello della riproposizione di una sinistra antagonistica e antigovernativa ma il suo contrario, al punto di giocare la vita del suo partito, e il suo destino personale, proprio nella contesa per la guida del governo, mediante uno strumento certamente lontano dalla tradizione della sinistra classica come le primarie.
Vendola non cambia impostazione. Lo dimostrano la battaglia per il referendum anti-Porcellum per superare per sempre il proporzionale (a cui invece Bertinotti resta fedele), o il comizio di ieri sera a Bologna con Prodi (che «rappresenta un punto di riferimento per tutti coloro che intendono costruire un centrosinistra capace di guardare al futuro»): o, per converso, la presenza di Arturo Parisi alla manifestazione di Sel di sabato a Roma, o ancora lo dice la riservatissima riunione di oggi con economisti di area Pd o comunque di formazione liberal-democratica per verificare convegenze programmatiche, buone appunto per un programma di governo.
Bertinotti è fuori da tutto questo. C’è nella sua evoluzione (o involuzione) un’evidente analogia con la traiettoria di Pietro Ingrao, che d’altronde è una delle fonti essenziali del pensiero dell’ex presidente della camera: quando il Pci si sciolse diventando Pds, Ingrao scelse in in un primo momento di «lavorare nel gorgo» – nel nuovo partito – per poi prenderne via via le distanze, fino all’uscita e alla sostanziale adesione proprio a quella Rifondazione comunista all’epoca guidata da Bertinotti.
Così anche quest’ultimo. Ideologo della nuova Sel, dopo la rottura con Ferrero e la “vecchia” Rifondazione, Bertinotti si deve essere reso conto, col passare dei mesi e l’assunzione da parte del nuovo partito di una connotazione fortemente personalistica (che egli, in virtù di una formazione culturale di segno opposto, non può far propria), che la famosa “narrazione” vendoliana non riesce a riempire quel vuoto politico creatosi a sinistra, una volta accertato (da lui) il definitivo «spostamento al centro» (definizione ancora di Ingrao) del Partito democratico.
Ma negli ultimissimi mesi c’è stato qualcosa di più: la definitiva presa d’atto che occorra una palingenesi («una destrutturazione dei corpi inerti e la resurrezione di una nuova sinistra», così disse ad agosto a Cortina), a fondamento della quale, ovviamente, c’è la sconsolata constatazione che «la sinistra è morta».
Una sinistra – come afferma su Gli Altri oggi in edicola – che è «un desaparecido, un ente pressoché inutile», incapace di sviluppare una coerente critica dell’esistente.
Per Bertinotti, in sostanza, sono tutti “dentro” l’apparato concettuale che sottende questa fase del capitalismo, ivi comprese le sue strutture istituzionali: e in questo senso la sua critica all’evoluzione in senso maggioritario di Vendola non potrebbe essere più netta.
Il punto più critico, tuttavia, è che nel nuovo Bertinotti non si capisce come, e da dove, ricominciare: probabilmente, ancora una volta, dai movimenti, dalle lotte, dalle proteste, ma quali, precisamente, nemmeno lui lo sa. Ritiene che la grande crisi sia destinata a produrre molto, su questo terreno, anche se le incognite sulla politicità di questi moti sono moltissime. È un’analisi, probabilmente neppure conclusa, che di fatto segna un baratro con Nichi Vendola. Ma questi tira dritto, ormai.
Già, Nichi non arretra dal suo progetto. Che non è quello della riproposizione di una sinistra antagonistica e antigovernativa ma il suo contrario, al punto di giocare la vita del suo partito, e il suo destino personale, proprio nella contesa per la guida del governo, mediante uno strumento certamente lontano dalla tradizione della sinistra classica come le primarie.
Vendola non cambia impostazione. Lo dimostrano la battaglia per il referendum anti-Porcellum per superare per sempre il proporzionale (a cui invece Bertinotti resta fedele), o il comizio di ieri sera a Bologna con Prodi (che «rappresenta un punto di riferimento per tutti coloro che intendono costruire un centrosinistra capace di guardare al futuro»): o, per converso, la presenza di Arturo Parisi alla manifestazione di Sel di sabato a Roma, o ancora lo dice la riservatissima riunione di oggi con economisti di area Pd o comunque di formazione liberal-democratica per verificare convegenze programmatiche, buone appunto per un programma di governo.
Bertinotti è fuori da tutto questo. C’è nella sua evoluzione (o involuzione) un’evidente analogia con la traiettoria di Pietro Ingrao, che d’altronde è una delle fonti essenziali del pensiero dell’ex presidente della camera: quando il Pci si sciolse diventando Pds, Ingrao scelse in in un primo momento di «lavorare nel gorgo» – nel nuovo partito – per poi prenderne via via le distanze, fino all’uscita e alla sostanziale adesione proprio a quella Rifondazione comunista all’epoca guidata da Bertinotti.
Così anche quest’ultimo. Ideologo della nuova Sel, dopo la rottura con Ferrero e la “vecchia” Rifondazione, Bertinotti si deve essere reso conto, col passare dei mesi e l’assunzione da parte del nuovo partito di una connotazione fortemente personalistica (che egli, in virtù di una formazione culturale di segno opposto, non può far propria), che la famosa “narrazione” vendoliana non riesce a riempire quel vuoto politico creatosi a sinistra, una volta accertato (da lui) il definitivo «spostamento al centro» (definizione ancora di Ingrao) del Partito democratico.
Ma negli ultimissimi mesi c’è stato qualcosa di più: la definitiva presa d’atto che occorra una palingenesi («una destrutturazione dei corpi inerti e la resurrezione di una nuova sinistra», così disse ad agosto a Cortina), a fondamento della quale, ovviamente, c’è la sconsolata constatazione che «la sinistra è morta».
Una sinistra – come afferma su Gli Altri oggi in edicola – che è «un desaparecido, un ente pressoché inutile», incapace di sviluppare una coerente critica dell’esistente.
Per Bertinotti, in sostanza, sono tutti “dentro” l’apparato concettuale che sottende questa fase del capitalismo, ivi comprese le sue strutture istituzionali: e in questo senso la sua critica all’evoluzione in senso maggioritario di Vendola non potrebbe essere più netta.
Il punto più critico, tuttavia, è che nel nuovo Bertinotti non si capisce come, e da dove, ricominciare: probabilmente, ancora una volta, dai movimenti, dalle lotte, dalle proteste, ma quali, precisamente, nemmeno lui lo sa. Ritiene che la grande crisi sia destinata a produrre molto, su questo terreno, anche se le incognite sulla politicità di questi moti sono moltissime. È un’analisi, probabilmente neppure conclusa, che di fatto segna un baratro con Nichi Vendola. Ma questi tira dritto, ormai.
Mario Lavia
L'ultima rottura di Fausto
Articolo de il Manifesto del 29 settembre 2011
IL CASO - Bertinotti scettico sull'Ulivo: «Serve accompagnare i movimenti che respirano l'aria della rivolta». Doccia fredda su Sel
Sinistra inutile, l'ultima rottura di Fausto
Perplessità fra i suoi Giordano: «Non sono d'accordo ma il dibattito serve. Poi Vendola deciderà»
IL CASO - Bertinotti scettico sull'Ulivo: «Serve accompagnare i movimenti che respirano l'aria della rivolta». Doccia fredda su Sel
Sinistra inutile, l'ultima rottura di Fausto
Perplessità fra i suoi Giordano: «Non sono d'accordo ma il dibattito serve. Poi Vendola deciderà»
Contrordine compagni, gli accordi con il Nuovo Ulivo non vanno bene. Naturalmente Fausto Bertinotti non la scrive così, nell'editoriale in uscita nei prossimi giorni sulla rivista Alternative per il Socialismo, ma più o meno è questa la traduzione dal bertinottese che ne danno i suoi esegeti. Il padre nobile di Sinistra ecologia e libertà, alla quale non ha aderito, preferendo la ricerca teorica all'impegno pratico, indica una nuova svolta. Anzi una rottura, come ai vecchi tempi.
L'articolo, in realtà anticipato per stralci dal manifesto del 23 settembre, è la risposta dell'ex presidente della Camera al dibattito aperto da Rossana Rossanda sul tema della crisi. Domani però il settimanale Gli Altri diretto da Piero Sansonetti ne pubblica altri stralci. Che picchiano a sinistra. La sinistra, scrive, «non ha saputo dire di no alla manovra del governo». «Aver accettato di discuterne i contenuti, quand'anche per criticarli, all'interno della sua cornice (che è poi la sua filosofia, cioè la sua ispirazione di fondo) e dei tempi di approvazione dettati dall'oligarchia di comando ha fatto della sinistra un desaparecido, un ente pressoché inutile». Oggetto della critica sembrerebbe il Partito democratico. «È il recinto il fondamento della nuova politica. Dentro o fuori. Se stai dentro è omologazione, se stai fuori è protesta». Il compito della sinistra, quella vera, è dunque «rompere il recinto» altrimenti «lo stato di necessità oggi rivendicato in nome dell'eccezione (la crisi) diventerebbe la regola di un modello economico e sociale regressivo, quello dell'Occidente del XXI secolo». «La politica (della sinistra) potrebbe rinascere solo come l'araba fenice, cioè solo dalle sue ceneri», «alimentare quella rottura da cui possa rinascere un pensiero critico radicato nell'esperienza sociale, un processo di trasformazione e la resurrezione della sinistra».
Ma se questa è l'analisi, «è possibile accettare di essere coinvolti in una impresa di governo? O non succede invece che la stessa accettazione di partecipare a un governo diventa una rinuncia alla lotta politica e dunque una sconfitta storica, una resa?», si chiede Sansonetti. Insomma, attutita dal fascino dialettico, in questo scritto potrebbe esserci una sconfessione della linea di Vendola, e della famosa «foto di Vasto» con Bersani e Di Pietro, ovvero l'incontro di metà settembre in cui si è messa la prima pietra di un'alleanza fra Sel, Pd e Idv?
Anche perché, per inciso, qualche distanza fra Bertinotti e Vendola si è già segnalata. Sulla legge elettorale. L'ex segretario Prc ha firmato fra i primissimi il referendum Passigli per la proporzionale, gradito a D'Alema e poi ritirato dal suo estensore. Vendola ha fatto una raccolta all'ultima firma sul referendum Parisi per il ritorno al Mattarellum, che invece piace a Veltroni. Di base, due idee diverse per andare al voto: correre soli o in coalizione.
Vendola, affaccendato nelle vicende della sua Puglia, per ora non commenta. Ma oggi è atteso a Bologna in un dibattito con Romano Prodi, padre dell'Ulivo e nonno del Nuovo Ulivo. Il suo «cerchio magico», tutti ex bertinottiani, stempera. «La discussione è il lievito della politica, ma forse siamo abituati a far prevalere i personalismi e i rancori. Invece l'analisi di Fausto è limpida», dice Franco Giordano, l'ultimo segretario Prc prima della scissione da Paolo Ferrero. «E io la condivido. Sono solo più ottimista sulla possibilità di un intervento attivo, l'unico che può rendere possibile un big bang per far rinascere la sinistra. In coerenza con le scelte fatte finora, non investirei solo nella rivolta: stiamo nei movimenti per avere la forza necessaria per costruire un grande soggetto di sinistra. Per questo vogliamo le primarie: perché tanto più prospetti una piattaforma politica ed economica alternativa, tanto più si aprono le contraddizioni. Nello stesso Pd. È bastato un incontro a Vasto e si è scatenato di tutto». Rottura, stavolta con Fausto? «Neanche per idea. Con lui c'è sempre da imparare. E comunque, il nostro tentativo potrebbe non riuscire, ma non riesco a pensare che non sia necessario». Così Gennaro Migliore, già capogruppo alla Camera con l'ultimo Prodi: «Stare nei movimenti e in mezzo al tuo popolo è essenziale per essere poi lo strumento della sua battaglia. Bertinotti ha fatto un'analisi sulla quale riflettiamo. Spetterà al leader del partito fare le scelte operative. Le ceneri da cui la sinistra deve risorgere ci sono già: quelle del 2008». Più scettico di tutti invece Claudio Fava, che proviene dalla sinistra Ds: «È il tempo della chiarezza. È vero che in nome dell'emergenza e della crisi un centrosinistra miope costruisce accordi su rischiosi governi tecnici. E per noi il perimetro dell'alternativa non serve a mettere bandierine, ma a rendere fattiva una proposta politica alternativa al berlusconismo e al linguaggio che ci ha lasciato. Quello che mi interessa è verificare se è possibile lavorare ad una concreta ed efficace agenda di governo fra le forze politiche. E non inseguire la profezia di una fine e di un inizio. Un vizio politicista, e un po' vecchiotto».
L'articolo, in realtà anticipato per stralci dal manifesto del 23 settembre, è la risposta dell'ex presidente della Camera al dibattito aperto da Rossana Rossanda sul tema della crisi. Domani però il settimanale Gli Altri diretto da Piero Sansonetti ne pubblica altri stralci. Che picchiano a sinistra. La sinistra, scrive, «non ha saputo dire di no alla manovra del governo». «Aver accettato di discuterne i contenuti, quand'anche per criticarli, all'interno della sua cornice (che è poi la sua filosofia, cioè la sua ispirazione di fondo) e dei tempi di approvazione dettati dall'oligarchia di comando ha fatto della sinistra un desaparecido, un ente pressoché inutile». Oggetto della critica sembrerebbe il Partito democratico. «È il recinto il fondamento della nuova politica. Dentro o fuori. Se stai dentro è omologazione, se stai fuori è protesta». Il compito della sinistra, quella vera, è dunque «rompere il recinto» altrimenti «lo stato di necessità oggi rivendicato in nome dell'eccezione (la crisi) diventerebbe la regola di un modello economico e sociale regressivo, quello dell'Occidente del XXI secolo». «La politica (della sinistra) potrebbe rinascere solo come l'araba fenice, cioè solo dalle sue ceneri», «alimentare quella rottura da cui possa rinascere un pensiero critico radicato nell'esperienza sociale, un processo di trasformazione e la resurrezione della sinistra».
Ma se questa è l'analisi, «è possibile accettare di essere coinvolti in una impresa di governo? O non succede invece che la stessa accettazione di partecipare a un governo diventa una rinuncia alla lotta politica e dunque una sconfitta storica, una resa?», si chiede Sansonetti. Insomma, attutita dal fascino dialettico, in questo scritto potrebbe esserci una sconfessione della linea di Vendola, e della famosa «foto di Vasto» con Bersani e Di Pietro, ovvero l'incontro di metà settembre in cui si è messa la prima pietra di un'alleanza fra Sel, Pd e Idv?
Anche perché, per inciso, qualche distanza fra Bertinotti e Vendola si è già segnalata. Sulla legge elettorale. L'ex segretario Prc ha firmato fra i primissimi il referendum Passigli per la proporzionale, gradito a D'Alema e poi ritirato dal suo estensore. Vendola ha fatto una raccolta all'ultima firma sul referendum Parisi per il ritorno al Mattarellum, che invece piace a Veltroni. Di base, due idee diverse per andare al voto: correre soli o in coalizione.
Vendola, affaccendato nelle vicende della sua Puglia, per ora non commenta. Ma oggi è atteso a Bologna in un dibattito con Romano Prodi, padre dell'Ulivo e nonno del Nuovo Ulivo. Il suo «cerchio magico», tutti ex bertinottiani, stempera. «La discussione è il lievito della politica, ma forse siamo abituati a far prevalere i personalismi e i rancori. Invece l'analisi di Fausto è limpida», dice Franco Giordano, l'ultimo segretario Prc prima della scissione da Paolo Ferrero. «E io la condivido. Sono solo più ottimista sulla possibilità di un intervento attivo, l'unico che può rendere possibile un big bang per far rinascere la sinistra. In coerenza con le scelte fatte finora, non investirei solo nella rivolta: stiamo nei movimenti per avere la forza necessaria per costruire un grande soggetto di sinistra. Per questo vogliamo le primarie: perché tanto più prospetti una piattaforma politica ed economica alternativa, tanto più si aprono le contraddizioni. Nello stesso Pd. È bastato un incontro a Vasto e si è scatenato di tutto». Rottura, stavolta con Fausto? «Neanche per idea. Con lui c'è sempre da imparare. E comunque, il nostro tentativo potrebbe non riuscire, ma non riesco a pensare che non sia necessario». Così Gennaro Migliore, già capogruppo alla Camera con l'ultimo Prodi: «Stare nei movimenti e in mezzo al tuo popolo è essenziale per essere poi lo strumento della sua battaglia. Bertinotti ha fatto un'analisi sulla quale riflettiamo. Spetterà al leader del partito fare le scelte operative. Le ceneri da cui la sinistra deve risorgere ci sono già: quelle del 2008». Più scettico di tutti invece Claudio Fava, che proviene dalla sinistra Ds: «È il tempo della chiarezza. È vero che in nome dell'emergenza e della crisi un centrosinistra miope costruisce accordi su rischiosi governi tecnici. E per noi il perimetro dell'alternativa non serve a mettere bandierine, ma a rendere fattiva una proposta politica alternativa al berlusconismo e al linguaggio che ci ha lasciato. Quello che mi interessa è verificare se è possibile lavorare ad una concreta ed efficace agenda di governo fra le forze politiche. E non inseguire la profezia di una fine e di un inizio. Un vizio politicista, e un po' vecchiotto».
giovedì 29 settembre 2011
Far saltare il recinto autoritario. La rivolta come opportunità
Pubblichiamo l'editoriale di Fausto Bertinotti del prossimo numero della rivista "Alternative per il socialismo"
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Rossana Rossanda ha aperto una discussione che si rivela di giorno in giorno di più stringente necessità a sinistra. Sono venute interlocuzioni assai interessanti sia sul terreno delle cause che hanno aggravato la crisi dell’Europa che dell’esplorazione di interventi programmatici per affrontarla fuori dalla disastrosa moneta corrente. In qualche caso, secondo me utilmente, si è sfidata la nuova ortodossia della parità di bilancio fino a prospettare uscite radicali. Tuttavia a me pare che la discussione dovrebbe prendere anche un’altra piega. Possiamo ancora affrontare il tema come se vivessimo in un’epoca democratica, con in campo una politica dotata di una qualche autonomia e una sinistra capace di influenzare le scelte di fondo? Temo di no. In questo caso si potrebbe forse seguire questo filo di ragionamento.
Ciò che la rivolta ha intuito dovrebbe costituire la base anche della rinascita di una politica e di un agire politico autonomi dal sistema economico-sociale e dal sistema di potere politico che in esso si è venuto costituendo. La rivolta ha intuito che, per riaprire la partita, bisogna far saltare il banco, cioè mettere in discussione radicalmente le decisioni politiche che vengono assunte dal potere costituito e contestare i luoghi e le forme con cui esse vengono assunte.
La crisi è un’occasione. Ma bisogna capire anche per chi. L’occasione è sfruttata fino in fondo dalle classi dirigenti per fare tabula rasa dell’Europa del compromesso sociale e democratico. Un panorama sociale tutt’affatto diverso ne sta prendendo il posto. E’ come se tutto ciò che si era venuto accumulando negli anni della restaurazione modernizzatrice, e accelerato negli ultimi mesi, fosse fatto precipitare in quest’agosto devastante.
Il lungo inverno trentennale di un ininterrotto attacco alle conquiste sociali e democratiche, di un conflitto di classe che si risolve costantemente a favore delle classi proprietarie, compie un balzo in qualità e quantità. Avevano esibito tutto il loro cinismo nella formula: “E’ il mercato, bellezza!”. Era la fase nascente della globalizzazione capitalistica e loro, le classi dirigenti, si permettevano di essere arroganti. Ora, in tutto l’Occidente, esplode la crisi nel capitalismo.
Dovrebbero dirci, se avessero ancora il cinismo arrogante dei vincenti: “E’ il capitalismo, bellezza!”. Ma non possono; troppo grande è l’incertezza, troppo devastanti sono gli effetti sociali provocati dalle loro politiche di risposta alla crisi, troppo alto è il rischio incombente di aspri conflitti, di sommosse, di rivolte.
La rivoluzione passiva che essi hanno egemonizzato è a un punto acuto, insieme potentemente in atto ma altresì in panne, perché in verticale crisi di consenso. Eppure riescono ancora a fare il peggio (per le classi subalterne, per le popolazioni, per la natura) e a scalare un altro gradone del loro dominio. Come abili prestigiatori essi fanno scomparire ogni causa di ciò che accade. Scompare il capitalismo, in primis; l’economia, il mercato, la finanza, e in essa la speculazione, si fanno condizione naturale; le devastazioni sociali si presentano come conseguenze ineluttabili (se piove ti bagni, se gela rabbrividisci dal freddo). Non conta neppure che in Europa l’aggressione sociale sia così radicale da allargare a dismisura le povertà, da precarizzare tutto.
Se negli anni trascorsi ogni messa in discussione di una conquista sociale (scala mobile, pensioni, gratuità delle cure, uno qualsiasi dei diritti di lavoro tra tutti quelli conquistati, per esempio l’art. 18 dello Statuto) diventava oggetto di una contesa, seppure difensiva, ora, d’un solo colpo, un’intera costruzione, seppur largamente imperfetta, di diritti, di libertà e di giustizia sociale viene abbattuta senza che nella società politica, e nella realtà che prende il nome di parti sociali, accade nulla di comparabile alla posta in gioco.
Solo da fuori di questo recinto può scaturire, e di fatto esplode in tante parti d’Europa, la contestazione. Dentro il recinto, niente più. Senza che le classi dirigenti possano neppure avvalersi della copertura etica consistente nel far valere la logica (per le classi subalterne sempre e comunque terribile) del rigore, dell’austerità a tutto campo, cioè anche rivolta su di sé (per esempio con l’introduzione di una patrimoniale e di una Tobin Tax). Né d’altra parte esse si propongono di debellare i giganteschi fenomeni di corruzione e di economia illegale e criminale covati all’interno di questo sistema economico e sociale.
Nessun riformismo - né borghese, né di sinistra - è capace di diventare soggetto politico consistente nella crisi del capitalismo finanziario globalizzato. La politica c’è, ovviamente. Ma non c’è alcuna autonomia di questa politica. Essa è, invece, sussunta dentro decisioni la cui cornice si presenta, all’interno del recinto, come oggettiva, come obbligatoria, come ineluttabile. Sono ammesse solo delle diverse nuances della stessa impostazione, non una diversa impostazione. Anche i riformismi più cauti sono banditi, sia nella discussione sul modello economico, sociale ed ecologico, sia nella distribuzione della ricchezza.
La crisi ha una sola risposta ammissibile, sostanzialmente quella in atto. Spunta persino un nuovo sacerdote dell’ortodossia: l’agenzia di rating. Essa giudica le economie e gli Stati e pretende di non essere giudicata da nessuna delle forme della democrazia rappresentativa (rappresentativa di che?). L’agenzia di rating si propone come un meteorologo che fa, neutralmente, le previsioni del tempo.
La messa fuori campo del pensiero critico, della critica dell’economia, si rivela una catastrofe. Il dominio del capitale, mai da più di un secolo così incondizionato, si oggettivizza; sbatte fuori, dalla politica realizzata e dalla democrazia rappresentativa, ogni forma di alternativa e cancella la democrazia.
Lo strisciante, e bianco, colpo di Stato consumato in agosto a livello europeo è l’epilogo, ad ora, del lungo processo di demolizione del compromesso sociale e della democrazia. Da qui si deve ripartire, da questo disperante livello. Per ripartire serve, da un lato, respirare l’aria della rivolta e, dall’altro, rimpadronirsi di un pensiero critico. Chiunque voglia semplicemente continuare a pensare non può che tornare, per andare oltre, a quella straordinaria risorsa che è il rasoio di Marx, quando si abbatte sulla mistificazione che il capitalismo ha saputo attivare per nascondere la sua natura e che, in questo nuovo e suo ultimo assetto, ha imposto alla politica, fino a renderla a esso servile.
L’annuncio di una rottura possibile
La fase sembra caratterizzata da due movimenti radicali, che vanno però in direzioni opposte. L’uno nasce e si radica nella società civile ed è portatore di domande che nascono prevalentemente dalla denuncia di una determinata condizione sociale, dall’opposizione a delle scelte di governo sia a livello dello Stato che dei privati e dalla denuncia di lesioni, di diversa natura, ai diritti della persona e di intere comunità, sia di lavoro che territoriali, piuttosto che di soggettività.
Esso costituisce un arcipelago di movimenti dal carattere fortemente orizzontale, senza partito e senza leaders che li possano rappresentare stabilmente; ognuno dei quali in grado di dare luogo a fenomeni di partecipazione larga e intensa attorno a una domanda di cambiamenti radicale scaturita, a sua volta, dalla contestazione di una condizione o di una minaccia considerata intollerabile (la precarietà del lavoro e della vita, la privatizzazione di un bene affermato come comune, la distruzione della scuola pubblica, la dignità della persona che lavora, la dignità della donna).
La rivolta che ha visto protagonisti i giovani nei Paesi del Nord Africa ha conferito anche ai movimenti dell’Europa una latitudine più grande, ne ha messo in rilievo una matrice comune fino ad allora più incerta e diversificata. L’aria della rivolta soffia per mille strade, più o meno grandi, più o meno lunghe (durevoli) e porta con sé, sulle spalle di un’indignazione forte e diffusa, il rifiuto, il rigetto dello status quo, la denuncia della diseguaglianza e della natura arbitraria del potere, compreso quello della politica che come parte del potere viene considerata. E’ l’annuncio di una rottura possibile.
Sono movimenti che crescono in Paesi, quelli del Mediterraneo, certo assai diversi tra loro (che l’Italia non sia l’Egitto, anche dal punto di vista democratico, è tanto vero quanto banale) ma accomunati da due o tre grandi tratti comuni di quelli che possono segnare un ciclo politico: il furto di futuro che il sistema compie sistematicamente sulle nuove generazioni; la crescita violenta e offensiva delle diseguaglianze; la mancanza di democrazia e di dialogo sociale nella quale vengono prese le decisioni politiche che riguardano la società intera.
Il vento della rivolta è il fatto nuovo di questa fase, l’unica chance che oggi si manifesta per il cambiamento, cambiamento peraltro sempre più acutamente e drammaticamente urgente. La reazione del sistema si è venuta intrecciando in Europa con quella che il sistema politico-istituzionale si è trovato a dover dare alla crisi che, dopo essere andata dagli Stati Uniti al mondo intero, e all’Occidente in particolare, è risalita dalla crisi di una Grecia a rischio di default a quella degli stessi Usa.
Questa crisi non è promossa dal “disordine” monetario e dalla politica delle banche come nel 2008 (sebbene quali rivelatori delle contraddizioni strutturali del capitalismo finanziario globalizzato), bensì dalle situazioni “disordinate” dell’economia reale. La minaccia è una nuova recessione che, peraltro, un economista come Stiglitz mette direttamente in capo anche alle politiche di austerità e di tagli alla spesa pubblica perseguiti ora dagli Stati. Il cane si morde la coda (ma forse bisognerebbe essere avvertiti del fatto che questa potrebbe essere il suo vero obiettivo).
Gli Stati hanno reagito alla prima crisi con giganteschi aiuti al sistema finanziario e alle banche, che così sono stati salvati, mentre si è realizzata, parallelamente, un’enorme redistribuzione dei redditi a favore delle rendite e del profitto, con la costituzione di un’incontinente concentrazione della ricchezza. Niente di tutto ciò si è fatto per il lavoro e l’occupazione; e ora a un’economia reale in crisi corrispondono le casse degli Stati svuotate dalle manovre di salvataggio.
La replica è una politica economica spietatamente classista: il cuore dei provvedimenti dettati dall’Unione europea e monetaria e dalla Bce è quello di un modello di società unico con il lavoro ridotto a merce, lo Stato ridotto alla sua minima dimensione, lo Stato sociale cancellato e la società civile condannata a diventare uno spazio interamente invaso dal profitto.
Dopo il pesante cedimento di Obama, non compensato dal tentativo di recupero con il piano contro la disoccupazione, il golpe europeo d’agosto vorrebbe inaugurare una nuova èra politica, quella dell’assenza di democrazia nell’“arte del governo”. Quel che è accaduto negli ultimi mesi è eccezionale nell’impermeabilizzazione dei luoghi della decisione dalla società civile e nella tendenza a cooptare l’intera società politica, maggioranza e opposizione, nella filosofia che quei luoghi si stanno dando, fuori da qualsivoglia tradizione democratica, costruendo così una sorta di cordone sanitario tra le nuove istituzioni e la società reale.
Se i contenuti di questa politica di risposta alla crisi portano un segno di classe così marcato da configurare la cancellazione di un’intera storia di emancipazione, la forma con cui si decide è quella che mette in mora la democrazia, ed espelle dalla politica riconosciuta come legittima, quella dell’alternativa di società, quella fondata sul conflitto e sulla critica all’ordine delle cose esistenti. E’ il recinto il fondamento della nuova politica. Dentro o fuori. Se stai dentro è l’omologazione, se stai fuori è la protesta.
Questo esito, oggi così prepotentemente annunciato, non è però affatto obbligato. Ma, perché non lo sia, il compito diventa quello di rompere il recinto, di spezzare il cerchio della separazione-cooptazione, perché, se questa durasse, la politica, così come l’abbiamo conosciuta in Europa dopo la vittoria contro il nazi-fascismo, uscirebbe definitivamente di scena e con essa ogni forma di autonomia della politica dal potere e dal sistema.
Lo stato di necessità oggi rivendicato in nome dell’eccezione (la crisi) diventerebbe la regola di un modello economico e sociale regressivo, quello dell’Occidente del XXI secolo. Quella che ci sembrava un’invettiva, il governo come commissione d’affari della borghesia, diventerebbe un’inquietante realtà. E la politica (della sinistra) potrebbe rinascere solo come l’araba fenice, cioè solo dalle sue ceneri. Dunque, ora il compito è rompere il recinto.
La crisi e le politiche di reazione alla crisi
Il compito è necessario e possibile. La necessità è impellente. L’aggravamento delle condizioni di vita e la crisi della coesione sociale covano uno spettro di reazioni possibili che non escludono quella regressiva di guerra tra i poveri, di ricerca del capro espiatorio, di esplosioni di violenza e di aggressività, di rafforzamento delle tendenze populistiche, xenofobe e razziste. Soprattutto si diffondono condizioni di lavoro e di vita altrimenti intollerabili, con un portato drammatico di sofferenze, di disagio, di solitudine, di alienazione.
La crisi e le politiche di reazione alla crisi operate dagli Stati nazionali e sovranazionali in Europa mantengono l’oscillazione dell’economia tra ripresa senza occupazione e ritorno della crisi fino alla recessione. L’instabilità è la cifra forte dell’intera fase. Il capitalismo conferma la sua animalesca vitalità, ma per leggerlo nella sua interezza, e non farsi trascinare nella conclusione fuorviante che “questa volta non ce la fa”, bisogna saper guardare al mondo, ai processi che lo investono fino a sconvolgerne gli assetti geopolitici, fino a dar luogo a un nuovo ordine (disordine) mondiale. Le doglie del parto di un nuovo sistema monetario che vada oltre il “dollar-standard” non sono solo visioni intellettualistiche di chi scambia i desideri con la realtà.
La distruzione creatrice è in movimento. In essa si manifestano due partiti borghesi, in qualche modo connessi anche alla diversa collocazione dei loro protagonisti nel sistema produttivo e di scambio. C’è il partito vincente del primato del capitale finanziario che egemonizza la politica degli Stati e c’è chi sarebbe disposto a un certo compromesso redistributivo grazie ad un intervento fiscale pur di salvare l’essenziale (il modello di sviluppo). Warren Buffet ha prestato la voce più autorevole (uno dei più grandi miliardari esistenti sulla faccia della terra), e in un certo senso curiosamente, a questo partito che simbolicamente si esprime con l’adesione alla patrimoniale e alla Tobin Tax (ai primi anni del XXI secolo sostenute in Italia soltanto dalla sinistra radicale). La diffusione del fenomeno in altri Paesi europei è assai indicativo del momento.
La vittoria del primo partito, quello del capitalismo duro, nelle politiche di governo in Europa la dice lunga non solo sullo stato delle sue borghesie, ma anche della politica, e di quella del centro sinistra in particolare. Sia il capitalismo che chiederebbe ai ricchi di pagare più tasse, che quello reale delle manovre economiche dell’estate, hanno però in comune il nocciolo duro di questa nuova ristrutturazione capitalistica, quello di sottomettere il lavoro a una nuova disciplina sociale nella quale non solo le scelte di investimento (la natura del modello economico sociale, il cosa, come, dove, per chi produrre) ma anche il salario, l’orario, la prestazione lavorativa, i diritti sono messi fuori dalla possibilità di essere determinati con il concorso dei lavoratori. La competitività richiede per essere perseguita la liberazione del capitale dal lavoro organizzato sindacalmente e politicamente, per ricondurlo alla condizione di merce. L’essenziale della sfida qui si concentra.
Intanto la recessione si fa più minacciosa. La crisi può sfociare in una recessione aspra, dura e lunga. Il rifiuto sistematico di alimentare la domanda interna in tutta l’area dell’economia occidentale perseguendo, al contrario, una deflazione salariale ne costituisce la base; le politiche di austerità, il tetto. Né la Cina da sola, né i Paesi del Bric nel loro insieme, possono supplire alla carenza di domanda nel mercato dell’Occidente. L’idea di affidare loro il traino della ripresa mondiale attraverso i loro consumi interni è priva di fondamento. Bisognerà ricordare che la Cina ha un Pil che è solo un terzo del Pil dell’Unione europea, malgrado una popolazione che è più di due volte e mezza quella dell’Ue. Chi volesse la crescita non potrebbe che cercarla, in primo luogo, nel mercato interno. Ma l’ipotesi è del tutto rifiutata.
Tanto meno si vuol aprire la via, da parte dei nuovi padroni del vapore, all’altra ipotesi strategica di fuoriuscita dalla crisi, quella più organica e più radicalmente innovativa, quella che chiama in causa direttamente il modello di sviluppo. Essa dovrebbe passare, da un lato, da una definanziarizzazione dell’economia e, dall’altro, dovrebbe saper rendere la crescita non necessaria al benessere della popolazione e alla qualità della società.
La prima richiederebbe un vero e proprio confronto con la rendita e con i movimenti di capitali per imporre, in primo luogo, il riconoscimento dei loro costi monetari sulle condizioni sociali e ambientali e la conseguente costruzione di dighe che li impediscano; essa richiederebbe la regolazione, a partire dalla tassazione delle transazioni finanziarie e dei movimenti di capitale, e persino la riduzione dei tassi di rendimento che oggi la speculazione moltiplica rispetto agli stessi profitti. Della seconda, solo per annotarne il carattere radicalmente riformatore, basti soltanto ricordare la necessaria assunzione in essa dei beni comuni e di relazione a base del nuovo corso che si dovrebbe avviare. Ma se anche disarmare la finanza è parte di questo nuovo corso, ciò chiederebbe di riprendere persino il problema della sovranità monetaria, fino a riscoprire l’uso di monete locali complementari che esaltino l’autonomia reale dell’ente locale. Mentre parte centrale del nuovo corso toccherebbe alla riduzione del tempo di lavoro individuale e alla sua redistribuzione.
Bastano questi cenni per capire perché la borghesia, entrambi i partiti della borghesia, respingano anche solo la sperimentazione di questa seconda via. Per capire invece le ragioni dell’opposizione alla prima delle ipotesi anti-recessive, cioè quelle di un riformismo interno all’attuale modello, bisogna proprio intendere fino in fondo il carattere regressivo, anche sul terreno culturale e di teoria economica, della scelta di fare del lavoro la variabile dipendente della produttività e della competitività, invece che un soggetto protagonista della vita sociale e dell’economia.
Quest’ultima crisi si è svolta attorno ai debiti sovrani. Quando si dice l’uso delle parole! Essi si chiamavano debito pubblico fino a qualche tempo fa. Si sono chiamati sovrani quando hanno perduto ogni autonomia di fronte alla potenza, all’arbitrio e all’arroganza dei mercati finanziari. Fino a qualche anno fa le politiche restrittive prendevano di mira essenzialmente il deficit pubblico, concentrandosi sulla necessità di ridurlo per risanare economie nazionali altrimenti malate e contagiose. Persino Maastricht con la (“stupida”) severa norma del rientro obbligato sotto il 3% aveva relativamente messo da parte il peso del debito agli effetti del rischio di crisi.
La messa sotto accusa del debito pubblico da parte del capitale finanziario è stata una scelta recente, repentina e assoluta. A partire dai Paesi più esposti al rischio di default i governi si sono allineati al nuovo credo, fino alla resa di Obama. Quella che era stata considerata una sorta di estrema speranza nella politica esistente in Occidente e, in essa, di quelle del centro sinistra, ha ceduto di schianto di fronte al ricatto conservatore, accettando proprio ciò che, di quella pressione, non si dovrebbe mai accettare, cioè che il welfare state è causa della crisi.
I governi europei hanno adottato tutti la stessa terapia. Se welfare e potere contrattuale dei lavoratori sono di ostacolo alla competitività non resta che tagliarli. Persino i tempi dei rientri e la quantità dei tagli escono come da una calcolatrice, una calcolatrice con la maiuscola. I tasti in Europa sono comandati dalla Bce, dall’asse tedesco-francese e, se si vuol essere impersonali, dai mercati finanziari.
Lasciamo parlare Mario Monti: «Le decisioni principali sono state prese da un “governo tecnico soprannazionale” e, si potrebbe aggiungere, “mercatista”, con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York». E’ quello che lo stesso Monti chiama, riferendosi a una tradizione dell’Italia medievale, il “podestà straniero”. Altri, analisti molto autorevoli come Eugenio Scalfari, hanno parlato, descrivendo lo stesso fenomeno, di un commissariamento.
Ho citato esponenti diversi del pensiero liberale democratico per mostrare come e da quale punto di vista, non solo da quello di classe, sia evidente la morte, o almeno la soppressione della democrazia. Semmai si deve aggiungere la constatazione di una doppiezza manifesta nei maggiori esponenti del pensiero liberale contemporaneo rispetto alla questione democratica. Ora si può rovesciare su di loro la critica che essi rivolsero ai comunisti.
La sospensione della democrazia nel regime capitalistico dell’Europa di oggi viene correttamente constatata ma non denunciata; anzi essa viene giustificata in nome di una ragione considerata superiore, il risanamento dell’economia. Senonché l’eccezione si trasforma in regola attraverso un processo complesso e articolato seppure non privo di una sua coerenza interna di netta ispirazione neo-autoritaria. In Italia il “podestà straniero”, prima, per usare un eufemismo, ispira la manovra di rientro e ne detta i tempi rapidi di attuazione.
Poi, deciso il nocciolo duro, fuori dal quadrante democratico e della sovranità, esso viene rivestito di un abito politico che , in presenza del governo Berlusconi, risulti il più prossimo possibile a far coincidere l’area di governo con l’intera rappresentanza parlamentare: decidere di varare, comunque, la manovra in un determinato tempo, accettandone il quadro, la cornice generale, equivale a condividerne il varo e a considerare le differenze contenutistiche non tali da supportare, in ogni caso, l’obiettivo del suo rifiuto.
Il Presidente della Repubblica, l’unica autorità politico-istituzionale del Paese da questo riconosciuto come tale, confeziona l’abito politico con cui viene rivestita l’operazione economica. L’idea della governabilità così lavora sul fondo, ancora. La tappa successiva, l’ultima manovra, ha completato il commissariamento senza sovranità; ne ha disvelato interamente il suo carattere di classe, in particolare nei tagli ai servizi sociali e, soprattutto, andando al cuore della questione, con un attacco ai diritti e al potere contrattuale dei lavoratori, organico, sistematico e, se si può usare questo termine nelle relazioni sociali, definitivo.
Sembrerebbe contraddittorio con questo esito il documento sottoscritto poco prima dalle parti sociali, e invece questa percezione è solo la proiezione nel nuovo ciclo della memoria delle relazioni sociali che caratterizzavano il ciclo precedente, cioè l’esistenza in esse del problema dell’autonomia del sindacato dai padroni, dal governo e dai partiti.
La nuova era non tollera (non concepisce?) l’autonomia, men che meno quella sindacale. Senza la democrazia dei lavoratori, senza il riconoscimento del valore progressivo del conflitto sociale, senza un’idea duale dei rapporti sociali e della natura del contratto, il patto sociale si trasforma nella cooptazione del sindacato nel sistema di potere e nella cornice economico-sociale del meccanismo di accumulazione capitalista. E questo è il senso dell’accordo tra governo e sindacati del 28 giugno scorso.
Un’altra cerniera tra società civile e istituzioni, tra economia e società, un altro teatro della democrazia reale in questo modo viene fatto saltare. Il recinto allarga il suo confine includendovi un altro pezzo della rappresentanza e contemporaneamente approfondendo il solco che separa il dentro dal fuori. I corpi intermedi sono un obiettivo nevralgico della svolta autoritaria.
Se da un lato si coopta il sindacato mentre si fa sprofondare il lavoro nella realtà della merce, dall’altro, gli enti locali vengono sospinti, con i tagli dei trasferimenti dello Stato, a diventare la controparte in prima istanza del malcontento e dell’ira delle popolazioni a cui dovrebbero, per via di bilancio, negare ciò che già avevano in termini di tutele sociali, di esercizio di diritti, di sostegno e di cura, togliendo loro, a volte, persino l’essenziale per una vita civile. Diventerebbero non più luoghi dell’autonomia locale, ma proconsoli di un governo centrale a sua volta proconsole di un governo sovranazionale, l’uno e l’altro liberatisi ormai del problema del consenso, cioè dell’essenziale della democrazia.
I decreti di Ferragosto esplicitamente confermano il passaggio dallo stato di eccezione (il rischio del precipitare della crisi finanziaria dello Stato) alla regola di uno Stato senza più sovranità e democrazia, niente di meno che attraverso una modificazione della Costituzione. Lo ha colto bene Rino Formica, che ha scritto: «I Costituenti assegnarono ai partiti politici il ruolo di corpo intermedio tra Stato e cittadini e di parte dello Stato democratico, perché doppio era l’esercizio della sovranità del popolo: nei partiti per rinnovare lo Stato (art. 49) e nello Stato per costruire una società tesa alla realizzazione dell’eguaglianza (art. 3). I Costituenti furono espliciti nell’indicare una scelta in contrasto con la tradizione liberale».
Cosicché non può risultare più evidente il vero e proprio rovesciamento della filosofia della Costituzione repubblicana con l’auspicata introduzione di un vincolo esterno capace di impedire il perseguimento proprio del compito assegnato dal Costituente alla Repubblica in uno dei suoi articoli fondativi, l’articolo tre. Ha ragione Formica quando conclude: «Con un decreto si recita quattro volte “in attesa della revisione costituzionale” su quattro punti nodali della Carta costituzionale: art. 81 (sovranità parlamentare su bilancio), art. 41 (democrazia economia) e gli articoli relativi alla composizione della Camera e alla composizione del governo delle autonomie locali territoriali. Bisogna tornare al colonialismo per trovare dei mutamenti costituzionali per interventi esterni».
Già, il vincolo esterno. Ieri usato (Maastricht) per logorare le conquiste sociali e ridimensionare lo stato sociale con l’assolutizzazione della riduzione del deficit; oggi per fare tabula rasa di un’intera storia politica e sociale, democrazia compresa, con il dogma del pareggio di bilancio. Una nuova ideologia borghese viene chiamata a presidiare il recinto. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori dalla politica corrente.
Il complemento viene da un’operazione culturale con la quale vengono demonizzati i movimenti. Di nuovo la barriera, il recinto viene in primo piano. I movimenti vengono indicati come portatori di violenza (e dunque fenomeni di ordine pubblico) o come estrema manifestazione di un mondo ormai fuori dalla contemporaneità e chiamati in vita solo per l’attività di forze antisistema. Il primo è il caso della No-Tav, il secondo quello della Fiom rispetto alla Fiat.
La discriminante messa in campo riecheggia la cultura di tutte le forme di oppressione, in particolare quella che pretende di dividere lavoratori e sindacati tra costruttori e distruttori. Oggi non gli appartenenti a un partito o un sindacato (anche se pure a loro può toccare), non gli intellettuali critici, come fu negli Usa negli anni della “black list” o come fu a lungo nella Fiat di Valletta, ma i movimenti, il conflitto, sono quelli che vengono configurati come distruttori. La conseguenza è diretta e devastante anche sulle forze politiche: solo chi si separa dai movimenti è ammesso nella sfera della politica riconosciuta.
Alla costruzione del recinto, del muro, servono anche i simboli, che possono diventare mattoni particolarmente pesanti. Per colpire a fondo una storia bisogna sradicarla, bisogna cancellare anche la memoria delle sue radici, tanto più quanto esse sono state profonde e forti, tanto da poter ancora e sempre rigenerarsi. L’idea della cancellazione, per decreto, delle feste del 1° maggio e del 25 aprile non è solo una sfida insolente; è un pezzo di una strategia di annientamento di una soggettività politica, quella del movimento operaio.
Di fronte a questa enorme e violenta sfida avevamo pensato: c’è solo da attendersi che la replica sia all’altezza. Voi volete toglierci la festa del lavoro, per cancellarci, e noi ce la riprendiamo, ritornando all’origine, con lo sciopero di tutte e di tutti: uno sciopero generale il primo maggio per resistere ed esistere, contro il muro. Il fatto che su questo punto, come su qualche altra nefandezza, il governo abbia dovuto smentirsi non tragga in inganno. Il processo va avanti; esso scava fossati, erige muri divisori; coopta ed esclude. Se vive il recinto, muore la politica autonoma; se regge il recinto muore definitivamente la sinistra politica.
Il recinto fa il suo gioco demolitore di democrazia, socialità e qualità della vita, mentre riduce in servitù la politica. Dunque, rompere il recinto è assolutamente necessario.
L’aria della rivolta e il movimento che la respira
Ma il compito di far saltare il recinto è, non solo necessario, ma anche possibile. Nello scorso numero della rivista abbiamo indagato la dinamica dei movimenti, leggendovi lo spirare dell’aria della rivolta. Nessuna pretesa di riduzione a un’unità inesistente ha ispirato quella ricerca, bensì il tentativo di capire se, tra storie tanto diverse per collocazione geografica, per scopi, per problematiche, per natura dei soggetti protagonisti, per le cause da cui hanno preso le mosse, ci fosse un possibile filo, anche sottile, che le legava. Noi pensiamo di averlo rintracciato in ciò che, approssimativamente, abbiamo chiamato l’aria della rivolta. Il Mediterraneo ne è stato e continuerà a esserne il teatro; un teatro che coinvolge, in forme diverse, l’intera Europa.
L’opposizione dei movimenti è all’ordine esistente; la loro molla è l’indignazione contro la diseguaglianza e l’arroganza del potere; la democrazia è la loro pratica; il loro obiettivo è la costruzione di un nuovo ordine democratico fondato sulla partecipazione e capace di spezzare la divisione tra governati e governanti. Questo è ciò che chiamiamo l’aria della rivolta perché il movimento che la respira non è rappresentabile, né racchiudibile in un obiettivo parziale e immediato.
Esso non è contro il negoziato, ma ha capito che, in questa fase, il compromesso è sistematicamente negato dal potere. Il tavolo, quello del confronto tra movimento e governo, è infatti, in questo quadro, attivabile solo per cooptare la rappresentanza e dividere. Chi oggi comanda ha fatto mancare la materia stessa del compromesso. Proporsi di far saltare il banco è dunque una prova di lucido realismo. Anche se essa è difficile da far entrare in culture che, sulla base della loro storia, hanno verificato che la pratica della contrattazione è stata la più efficace prassi di cambiamento e di partecipazione conflittuale esercitata dagli oppressi. Il dialogo tra queste diverse culture critiche è ciò che possiamo e dobbiamo saper fare.
Dove ci sia uno spazio che il conflitto può guadagnare per far vivere una vera contrattazione che possa riaprire, a sua volta, la possibilità concreta di conquista sociale, ecologica, democratica esso va sostenuto a fondo anche dal vento di rivolta. Dove il vento spiri aprendo nuove strade con movimenti di vera e propria rivolta, di insubordinazione di massa, pacifica e non violenta, o di occupazione di spazi da convertire ad attività extramercantili, a pratiche di liberazione, a far vivere beni comuni, si trovi il massimo di comprensione e di convergenza attorno a queste nuove pratiche sociali. La zona rossa deve poter essere messa in discussione da ogni lato. I movimenti di questa stagione possono essere aiutati a farlo. Sono le loro stesse caratteristiche a dircelo.
Un contributo importante alla loro lettura, anche per il profilo politico-intellettuale dell’autore, è venuta da Alain Turaine. Ricorriamo a una lunga citazione di un suo recente scritto perché esso ci pare particolarmente significativo, proprio alla luce della natura della cattedra da cui proviene.
«Tra i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados. (…) La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato. (…) Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazioni e le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici. (…) Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra - i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. (…) Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale. (…) In Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. (…) Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto».
L’ampiezza del fronte di lotta è in continua espansione e si estende a sempre nuovi Paesi. E’ di qualche significato la mobilitazione, forse senza precedenti, in un Paese come Israele, dove la protesta contro l’aumento del costo della vita è diventato un movimento capace di portare in piazza a Tel Aviv più di 300mila persone in agosto e di proseguire la settimana successiva investendo le città periferiche, in genere assai lontane da esperienze del genere. Il riferimento anche lì adottato esplicitamente è quello degli “indignati”. E’ stato definito da osservatori informati un movimento in crescita «potente, che per il momento ha il potere di dire “No”, di non accettare le soluzioni politiche tradizionali, ciò che lo protegge dalle divisioni interne». Secondo un recente sondaggio l’88% degli israeliani sostiene la contestazione e il 53% di loro si dice pronto a manifestare.
A Nord la sommossa ha scosso Londra. Ancora una storia diversa, più simile nelle sue forme ai moti che nel 2005 bruciarono le banlieues francesi e tuttavia anch’essa così interna alla nuova stagione. Qui la violenza ha certo caratterizzato il moto di ribellione ma la sua lettura non deve farsi attrarre unilateralmente da questa che, a sua volta, deve essere ben compresa (non condivisa) nella sua radice.
Ha scritto Tony Trevers, uno studioso del fenomeno per la London School of Economics, che: «Ridurre il tutto a un fatto criminale è sbagliato. Dovremo capire meglio cosa sta accadendo, ma non si può dimenticare che i protagonisti di questi assalti sono tutti giovani poveri delle periferie. Spaccano le vetrine, incendiano i negozi e gli edifici, sono violenti perché, sentendosi respinti, sfidano l’autorità». Dominique Moïsi, editorialista del Financial Times, aggiunge che il motore dei moti sono: «Le pulsioni nichiliste di alcuni esclusi attorno a cui si coagulano le insoddisfazioni di molti. I teppisti inglesi sono appoggiati da molti giovani che, pur non condividendo il ricorso alla violenza, la capiscono. I sacrifici richiesti in tempo di crisi si traducono in violenza se non vengono applicati a tutta la società».
Laurent Mucchielli, l’autore di Quando le banlieues bruciano, uno studioso che ha indagato a fondo il carattere spontaneo della rivolta, ha così descritto la forma di organizzazione della lotta: «I rivoltosi sono come un esercito. C’è la prima linea, i disperati che non hanno nulla da perdere, quelli che prendono i rischi peggiori. C’è anche una seconda linea, il grosso della gioventù che li appoggia. E una terza linea, che incoraggia le prime due dalla finestra. Le tre linee sono legate da un sentimento di ingiustizia e di esclusione, che non è provato solo dai maschi e solo dagli uomini. Infatti, i rivoltosi che vengono presi dicono sempre che si sentivano il braccio armato di una comunità più ampia». Mucchielli indica anche la ragione interna della fine della rivolta violenta nel fatto che «la popolazione, che pure ha sostenuto i rivoltosi, decide che i danni sono troppi e che il quartiere, già povero e degradato, lo è diventato ancora di più». Una bella sfida per una pratica di nonviolenza che sappia assumere la rivolta come un terreno reale e necessario della contestazione sociale in questa fase storica.
La rivolta ha mille facce diverse; perciò ne vogliamo cogliere l’aria, la condizione ambientale che la favorisce, le molle che la generano, l’orizzonte di senso e di rinascita della politica che possiamo guadagnare. Da noi l’aria della rivolta ha preso per ora la via dell’articolazione dei movimenti. L’eredità del caso italiano, la sua storia di contrattazione sociale e di articolazione dei conflitti lascia un deposito che lavora nel fondo della società, come una memoria che riaffiora, anche quando la storia ha preso già un altro verso.
Inoltre il disagio, la rabbia sociale, pur così diffusa, non conosce, come in altri Paesi europei, zone, territori, dove si concentrano l’esclusione e la discriminazione fino a costituire un serbatoio pronto a esplodere. Forse non è neppure del tutto ininfluente il fatto che esista in Italia una fonte di solidarietà sociale non ancora prosciugata, quale la famiglia o certe relazioni di comunità. Tuttavia, il panorama di conflitti, di proteste, di lotte e di partecipazione che ci ha fatto parlare dell’esistenza anche nel nostro Paese dell’aria di rivolta resta un campo aperto. Il potere non è riuscito a sradicare le molle del conflitto che riemergono con l’avvicinarsi dell’autunno. Ha un preciso significato che sia la Fiom a dar vita alle prime mobilitazioni.
L’avvio della lotta contro il nocciolo duro dei decreti agostani, cioè l’aggressione al lavoro, è stato un fatto promettente in sé che ha avuto anche il merito di non consentire la piena adesione dell’intero sindacato confederale al patto sociale. La Cgil, sollecitata da una presenza critica, quella di una forza sindacale autonoma che vive al suo interno, ha visto squadernarsi dinanzi a sé la sua grande contraddizione. La convocazione dello sciopero generale è stata l’espressione più forte di questa presa di coscienza, che ha rappresentato, sul confine del recinto, il suo polo non pacificato.
E’ una crepa importante quella che si è aperta con lo sciopero generale proclamato dalla Cgil (e che è diventato l’occasione anche per la simultanea convocazione dello sciopero dei sindacati extraconfederali), una crepa nel processo di cooptazione dentro il recinto governi sta, di tutte le grandi forze organizzate politiche e sociali. Essa è la manifestazione interessante di una qualche instabilità esistente nella costruzione neoautoritaria. Si tratta di un’instabilità interna che va messa alla prova, sia per far crescere la partecipazione di masse alla lotta, sia perché, come invece è già accaduto precedentemente, dopo lo sciopero tutto non ritorni come prima. Il rischio è assai alto.
In ogni caso, la spina nel fianco della Fiom agisce efficacemente perché il sindacato dei metalmeccanici è già parte costitutiva dell’arcipelago dei movimenti che hanno caratterizzato la stagione politica che ha fatto parlare di un cambio del vento. Si è vista, anche nelle giornate di Genova, l’ampiezza dell’area che rappresentava lì la diffusione dei movimenti che vivono nel Paese. Si è visto anche lì il bisogno di continuità che emerge all’interno di questi stessi movimenti; l’esigenza di dare ad essi una strutturazione che possa favorire la loro tenuta e lo sviluppo della mobilitazione, dalle donne al popolo viola. Il fronte dei beni comuni è ormai una larga realtà dinamica, dentro la quale crescono esperienze ed elaborazioni impegnative, dove si esplorano nuovi terreni di lotta, mentre altri appuntamenti vengono resi indispensabili dai provvedimenti governativi e dalla stretta sugli enti locali.
I soggetti che sono nati e cresciuti di fronte al diffondersi della precarietà ed hanno saputo elaborare nuove forme di lotta e di organizzazione restano sul terreno sociale un punto di forza della possibile radicalizzazione ed estensione del conflitto. La ripresa delle attività scolastiche costituirà un’occasione per lo sviluppo del protagonismo delle nuove generazioni, che sono state nei mesi scorsi, e lo sono in tutto il continente, l’ala trainante delle lotte e delle rivolte.
Dunque, fuori dal recinto c’è tanto e su questo riposa ormai la possibilità di vedere rinascere una politica autonoma, critica nei confronti di un sistema che sacrifica alla sua sopravvivenza la democrazia e il compromesso sociale. A maggior ragione, anche quando si evidenziano delle crepe nella costruzione del regime, bisogna essere ben avvertiti che sono queste realtà, cioè quello che vive oggi fuori dal recinto, le novità della fase.
Contemporaneamente bisogna saper leggere, senza presunzioni e saccenza, i limiti e le inadeguatezze dei movimenti di questa fase. Genova, la cui utilità va ribadita, ne è stato lo specchio. Le connessioni, i legami tra i diversi movimenti sono troppo flebili e incerte; la questione del rapporto tra lavoro, libertà e democrazia, con tutto il suo portato insieme di drammaticità e di nuova frontiera, risulta troppo poco a fuoco, proprio nel suo carattere generale, di società; la necessaria dimensione euro-mediterranea del conflitto ancora non è sufficientemente indagata e praticata; la riflessione sulle forme di lotta, su cui pure la stagione è già stata così ricca di esplorazioni e di esperienze, è ancora troppo occasionale. Vorrei ricordare che anche in altre e tutt’affatto diverse, fasi di lotta, anche quando esse erano così estese, forti e radicali da essere vincenti, la riflessione interna sui loro limiti era un lavoro politico necessario, non un modo per sminuirne la portata e la prospettiva. Figurarsi ora.
Far saltare il tavolo, aprire un nuovo corso della democrazia
L’aria della rivolta è la risorsa di oggi per non soccombere. L’intuizione che la caratterizza risponde ad una precisa lettura della fase in Europa, risponde ad un giudizio sulle risposte che le classi dirigenti europee nel capitalismo finanziario globalizzato stanno dando alla crisi: il tavolo delle decisioni su cui esse sono state assunte ha demolito la democrazia e negato ogni significativo spazio di compromesso sociale e di negoziato; dunque, è il tavolo che deve essere fatto saltare, affinché si possa aprire un nuovo corso della democrazia, della politica e dell’organizzazione della società.
In Italia due movimenti vanno in direzione opposta. Da un lato, il processo politico istituzionale che accompagna acriticamente la grande ristrutturazione capitalistica; dall’altra, i movimenti di lotta e di mobilitazione che, esclusi da questa costruzione neoautoritaria, la contestano e la rifiutano. A separare i due movimenti c’è la costruzione del recinto cui abbiamo accennato, che riduce la politica ad attività servile.
L’uscita di scena della sinistra è riassunta nella sua incapacità di spezzare il recinto fino al punto di non sapere nemmeno vederlo. Nell’agosto del golpe bianco essa non ha saputo dire “No” alla manovra. Aver accettato di discuterne i contenuti, quand’anche per criticarli, all’interno della sua cornice (che è poi la sua filosofia, cioè la sua ispirazione di fondo) e dei tempi di approvazione dettati dall’oligarchia di comando ha fatto della sinistra un desaparecido, un ente pressoché inutile (altri, per composizione sociale, per interesse e per cultura economica e politica, sono adatti a compiere questa funzione assai più efficacemente, a cominciare dai grandi borghesi).
Ogni discorso politico autonomo sarebbe dovuto cominciare dal famoso “Preferirei di No” di Bartleby. Un irriducibile “No” a un impianto di politica economica fondato sull’assunto che il welfare state e il potere contrattuale dei lavoratori sono la causa del debito pubblico e del deficit di competitività delle nostre economie. Accettare la sovranità del vincolo esterno equivale all’accettazione dell’eutanasia della sinistra e dell’accettazione della sua collocazione all’interno del recinto. Se il compito è, come è, la rottura del recinto, allora esso non può che poggiare sull’opposizione al vincolo esterno di un vincolo interno (ricordare la lezione di Claudio Napoleoni), sulla sua assunzione a fonte della rigenerazione dell’autonomia della politica e della sinistra.
E’ il vincolo interno, del resto, ciò che invocano, più o meno esplicitamente e consapevolmente, tutti i movimenti in campo: una poderosa redistribuzione dei redditi a favore del salario in tutte le sue forme ipotizzabili, diretto, indiretto e differito per coloro che lavorano e sociale per chi non lavora; la costruzione di un sistema di diritti esigibili finalizzati al pieno sviluppo della persona umana in una cittadinanza universale rispettosa delle differenze; la difesa e valorizzazione della natura fino a configurarla come levatrice di un diverso rapporto tra natura, produzione, consumo e ricerca; la messa in discussione dell’attuale rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro. Abbiamo così indicato solo alcuni dei campi in cui può costituirsi il vincolo interno.
Aprire una radicale lotta politica e culturale per la sua possibile assunzione a fondamento di un nuovo corso è diventato improcrastinabile. Si tratterebbe di accompagnare con questa ricerca i movimenti che respirano l’aria della rivolta, la quale è la sola che, a sua volta, può alimentare quella rottura da cui possa rinascere un pensiero critico radicato nell’esperienza sociale, un processo di trasformazione e la resurrezione della sinistra. La rottura del recinto ne è oggi la prima condizione, la democrazia la sua chiave di volta.
Fausto Bertinotti
editoriale del numero del 29 settembre di «Alternative per il socialismo»
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